Archivio mensile:marzo 2018

Universalismo, ovvero Primagliesseriumani

L’ideologia postideologica del populismo qualunquista incombe, ma in realtà non è lei il problema per il futuro della politica. Quell’ideologia non è infatti che una risposta, per quanto pessima, a un problema incistato nella politica (non solo italiana) da così tanto tempo che è persino difficile fissare una data limite: da Tangentopoli? Dalla caduta del muro di Berlino? O addirittura dal Sessantotto, anno che vide assieme la lacerazione prodotta nel PCI dai carri armati russi sulla Primavera di Praga e una contestazione giovanile che altro non fu che la mascherata di un ricambio generazionale del potere?

Lasciando agli storici questi interrogativi, resta che da quasi mezzo secolo si assiste allo “slittamento al centro” di quel che una volta era la sinistra, il che – tradotto a giovamento di tutti coloro che ritengono “destra” e “sinistra” ormai obsoleti solo perché non sanno maneggiarli – significa costante e progressivo abbandono di valori da parte di quei rappresentanti politici che una volta ruotavano attorno al Partito Comunista Italiano. Uno slittamento che non è responsabilità esclusiva dei politici, i quali anzi hanno la sola colpa di aver “inseguito” un elettorato che sempre più abbandonava i valori storicamente fondanti la sinistra –  equità e universalismo – e che perciò è il vero agente di questo cambiamento.

Le ragioni di tutto questo sono piuttosto chiare e si collocano nell’aspetto rivendicativo delle politiche della sinistra novencentesca e, prima ancora, ottocentesca, entrato in conflitto con quei valori a causa del cambiamento delle condizioni del mondo e della conoscenza che ne abbiamo. Fino a cinquant’anni fa, infatti, il ceto medio e medio-basso dei paesi europei poteva ancora illudersi di coniugare con equità e universalismo il personale desiderio di migliorare la propria condizione materiale : le “magnifiche sorti e progressive” nutrivano il sogno che fosse sufficiente eliminare i privilegi e liberare lo sviluppo per rendere abbienti tutti gli abitanti del pianeta. Oggi sappiamo che non è così, sappiamo che se tutti sei miliardi di abitanti del pianeta consumassero quanto il miliardo dei paesi ad alto PIL la terra non sopporterebbe il carico, anzi, non ci sarebbero proprio le risorse per sostenere quei consumi; oggi vediamo come i “paesi poveri” stiano assediando quelli “ricchi”, o sottraendo loro attività produttiva (che eseguono a costi più bassi), o bussando con energia alla loro porta per entrarvi, sotto forma di immigrazione. E – come evidenziano molti studi, tra i quali il Rapporto Oxfam dello scorso anno – tutto ciò ha comportato che per oltre mezzo miliardo di appartenenti a quel ceto medio, europeo ma anche statunitense, vi sia stata nell’ultimo decennio una parziale, ma comunque sensibile, diminuzione della ricchezza materiale.

Questa è la vera e più profonda motivazione che ha spinto parte di coloro che una volta votavano la sinistra a rivolgersi altrove e, di conseguenza, i loro precedenti rappresentanti a rincorrerli, abbandonando sempre più i valori della sinistra – inutilmente, perché sì facendo si limitavano a mimare gli originali, i quali – si sa – sono sempre preferibili alle loro copie. Adesso – dopo la scomparsa dei partiti di sinistra dal Parlamento avvenuta cinque anni fa e dopo la frana elettorale del 4 marzo che ha prodotto la nullificazione anche del centrosinistra, a vantaggio di populismi dal contenuto ambiguo e privi di qualsivoglia lettura politica internazionale – qualcuno propone di continuare la rincorsa a destra – o, di nuovo, se non vogliamo usare queste categorie, di cessare definitivamente di coniugare equità e internazionalismo.

Lo fa per esempio Gianpasquale Santomassimo in un articolo su il manifesto, criticando non solo quello che chiama “mito europeista” (e certo sulla struttura, più economicista che politica, dell'”Europa Reale” qualcosa da ridire c’è senz’altro), non solo il “multiculturalismo” (tema trattato da tutti con una grossolana superficialità che lascia stupefatti), ma appunto anche l’universalismo:

«Non ci interessa la sovranità nazionale, siamo internazionalisti» dichiara la dirigente di una lista elettorale che ha preso l’1,1%. Ci si chiede da quando questa posizione, che ignora perfino il significato delle parole, e che sarebbe impossibile spiegare ai cubani, ai vietnamiti, ma anche ai curdi e a qualunque altro popolo, sia diventata luogo comune nella sinistra italiana.

Provo a rispondere: dal 1864, data della I Internazionale? Oppure – per limitarsi angustamente all’Italia – il 1969, data di nascita di quel giornale su cui Santomassimo scrive, immemore del fatto che il motto dei suoi fondatori era “la sinistra o è internazionalista, o non è”?

Lo fa anche – e mi stupisce di più, perché molto devo alla sua lucidità politica – un vecchio saggio qual è Raniero La Valle, il quale conclude una riflessione immediatamente successiva al voto e ricca di giuste osservazioni affermando:

Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini.

Un po’ meglio di Santomassimo, certo, ma sempre con lo sguardo puntato sul proprio ombelico: perché la povertà, la sofferenza, l’umanità che reclama equità non stanno in Europa ma altrove e – pur con tutte le sue distorsioni – la globalizzazione sta loro dando una mano.

Questo dovremmo far comprendere a quelle “persone”, a quelle “famiglie”, a quei giovani che vanno a Londra a fare i camerieri per non restare a casa propria a fare i muratori, lasciando spazio a quegli albanesi per espellere i quali i loro padri votano a destra (per chi non lo sapesse, il numero di immigrati in Italia, cinque milioni, è più o meno uguale quello degli italiani all’estero…). Questo dovrebbero fare i soggetti di sinistra: ricreare una cultura di sinistra, di fatto boccheggiante, se non defunta. Smettendo di voler “vincere”, o almeno cessando di volerlo fare domani, e riconoscendo con cinico realismo che parte di quegli elettori che si dicevano di sinistra e che non se ne sentono più rappresentati in realtà non lo erano mai stati: si trovavano lì solo per interesse personale e non perché interessati all’equità e alla giustizia. E giustamente, dal loro punto di vista, si sono spostati a destra quando il vento è cambiato.

Questo ci aspetta, se vogliamo tornare a sperare in un mondo migliore, più equo e più giusto, e non limitarci a bramare un mondo per noi più comodo. Ma per farlo l’universalismo è una conditio sine qua non e vederlo accantonare, in toto o in parte, da chi ha vissuto la sua storia a sinistra inquieta più di quanto non turbino l’ascesa delle destre e dei populismi.

 

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La “postideologia”, o l’abolizione della consapevolezza

Nella prima dichiarazione dopo il voto, il candidato alla Presidenza del Consiglio dei Cinquestelle, Luigi Di Maio, ha sostenuto che il pronunciamento elettorale che ha assegnato la vittoria al suo movimento sia “postideologico, oltre la destra e la sinistra”, perché “riguarda temi, non ideologie”.

Sul fatto che il voto ai Cinquestelle sia oltre la destra e la sinistra ho forti e fondate perplessità, che non esprimerò adesso; non dubito invece che esso sia “postideologico”, anche se temo che non molti abbiano capito cosa significa e quanto ciò sia grave.

Al lemma “ideologia” l’enciclopedia Treccani online riporta la seguente definizione:

Il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale.

Ora, se si fa eccezione per il reiterato leitmotiv dell’onestà, il M5S non ha esplicitato – né in questa campagna elettorale, né in passato – le “credenze, opinioni, rappresentazioni, valori” che lo “orientano” e – soprattutto – si è sempre ben guardato dal presentarle come un “complesso”, ovvero come ciò che sarebbe stato a un tempo il suo profilo identitario e il modello di cultura politica e sociale sul quale fondare la propria idea di società da realizzare e le promesse che rivolgeva agli elettori. Ha quindi ragione Di Maio: il M5S e il voto per esso espresso sono “postideologici”, perché quel movimento e – presumibilmente – i suoi elettori un’idea di società non ce l’hanno, così come non hanno una cultura sociale e politica. Almeno, non in modo esplicito.

Che importa, si dirà, visto che comunque il M5S si occupa di temi quali “la povertà, i tagli agli sprechi, l’immigrazione e la sicurezza, il lavoro, le tasse e lo sviluppo economico delle imprese”? È questo, e non altro, che interessa agli elettori.

Già, ma la domanda che qui si impone è: come può quel movimento occuparsi di tali “temi” in assenza di una ideologia che lo “orienti” rispetto ad essi? Perché – mi limito a uno solo, ma lo stesso vale per tutti i temi – l’immigrazione si può affrontare per esempio accogliendo senza riserve tutti coloro che arrivano ed evitando i naufragi attivando a spese dello Stato linee aeree gratuite per chiunque voglia venire, oppure sparando sui barconi, oppure ancora inviando ai migranti a dominicilio valanghe di beni e denaro affinché rimangano dove sono: quale tra queste (o altre) strategie attuare dipende dall’ideologia che si adotta, appunto da quell’ideologia che il M5S dice di non avere.

In effetti, seguendo la definizione della Treccani, senza un’ideologia si rimane semplicemente “disorientati”. Ora, è vero che i Cinquestelle non sembrano sempre orientatissimi (per esempio, sul tema dell’immigrazione sembrano piuttosto imprecisi e in economia hanno spesso parlato conteporaneamente di decrescita e rilancio dei consumi, due cose in contraddizione), ma sui “temi” indicati da Di Maio delle direzioni sembrano averle, le hanno anche scritte sui loro programmi. E se le hanno, allora non possono che avere anche un’ideologia che li orienti. In cosa consiste allora il loro carattere “postideologico”?

Semplicemente in questo: che la loro ideologia non l’hanno né elaborata, né esplicitata, né quindi condivisa. Forse non sanno neppure di averla.

La loro postideologia consiste nella rimozione della consapevolezza di avere un’ideologia che li orienta. Che, alla fine della fiera, significa di fatto una cosa sola: l’assunzione di un’ideologia qualunquista, basata sull’interesse crasso e immediato, di pancia, non strutturato da una riflessione consapevole, da una rielaborazione continua e condivisa. Un’ideologia, oltretutto, dalla vista corta (potrebbe essere altrimenti, essendo inconsapevole?), incapace di pensare i “temi” che affonta su tempi lunghi e spazi larghi.

Bene, questa “postideologia” è quanto ha appena prevalso come “nuovo orizzonte” nel nostro Paese. È ignoranza e cecità, superficialità e inconsapevolezza. È pericolosa non meno della boria autoritaria della “vecchia politica”. Anche ad essa è necessario, con urgenza ed energia, reagire, resistere, rispondere con altre, nuove, ricche, creative proposte.

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