Archivio mensile:agosto 2020

Alzare la rappresentatività, non tagliare i rappresentanti

Quando la democrazia nasce ad Atene, tra il VI e il V secolo a. C., il suo esercizio prevede che tutti i cittadini adulti di sesso maschile (tra il 10 e il 20 per cento degli abitanti della città, essendo esclusi le donne, i minori e gli schiavi) abbiano accesso alla gestione del potere attraverso la possibilità di avanzare proposte, partecipare ai dibattiti politici e votare le decisioni esecutive. La città-stato di Atene conta tra i due e i trecentomila abitanti, cosicché la platea dei partecipanti oscilla tra le trenta e le cinquantamila unità: moltissime, ma ancora in qualche modo gestibili per realizzare quella che oggi chiamiamo “democrazia diretta”.

Quando la democrazia si riaffaccia nella modernità, svariati secoli più tardi, gli Stati che la ripropongono non sono più città, gli aventi diritto non più poche decine di migliaia bensì milioni e vivono a distanze spesso troppo ampie per potersi incontrare. Nasce per questo la democrazia rappresentativa, la quale prevede che ad avanzare proposte, discuterle e deliberare attraverso il voto non siano più i cittadini, bensì dei rappresentanti da loro nominati per via elettiva. La loro funzione è quella di essere dei portavoce dei cittadini nei diversi momenti della vita democratica, quello propositivo, quello dibattimentale e quello deliberativo. Ma affinché questo ruolo possa essere svolto in modo adeguato, ossia mantenendo le specificità della democrazia ateniese, sono indispensabili una serie di condizioni:

  1. che gli eletti rappresentino realmente i cittadini;
  2. che in Parlamento vi sia dibattito;
  3. che la votazione decisionale sia libera.

La prima condizione può essere soddisfatta solo se il rappresentante mantiene un costante contatto con i cittadini che lo eleggono; ma perché ciò avvenga è necessario tanto che egli si presenti spesso sul territorio per confrontarsi con i suoi elettori, quanto che vi abbia costantemente dei collaboratori i quali, in spazi visibili e sempre aperti, raccolgano le proposte dei cittadini, le discutano con loro, le elaborino, le trasmettano all’eletto che deve rappresentarle in Parlamento.

La seconda condizione può essere soddisfatta solo se il Parlamento non blocca le discussioni ogniqualvolta il Governo vuol riaffermare la propria forza nonostante sia debole, o è indisponibile alla mediazione con il resto del Paese, o vuol “forzare” le deliberazioni per qualche motivo di parte, e via dicendo.

La terza condizione può essere soddisfatta solo se il singolo rappresentante non è ostaggio del partito politico cui fa parte.

Non è difficile rendersi conto che nessuna delle tre condizioni vengono oggi soddisfatte.

La prima non lo è perché gli uffici locali dei deputati, che un tempo c’erano, sono stati progressivamente aboliti, così come il loro periodico confrontarsi con gli elettori: erano pratiche faticose e onerose (gli alti stipendi dei deputati servivano a quello, a stipendiare dei collaboratori, non a comprarsi le barche), così sono state sostituite dalle passerelle televisive – che però sono unilaterali e non permettono la raccolta delle proposte dei cittadini e il confronto con essi, elementi chiave della rappresentanza.

La seconda non lo è perché ormai si governa a colpi di fiducia, di decreti, di manovre omnibus entro le quali nascondere le norme su cui vi sia dissenso, mentre le proposte dei cittadini non trovano neppure l’occasione per essere discusse.

La terza non è soddisfatta perché i deputati sono selezionati dai partiti già prima della loro elezione (cosa che di per sé ha senso e non è in conflitto con la democrazia) in funzione soprattutto della loro fedeltà ai vertici dell’organismo e, nel caso entrino con questo in conflitto nel corso di deliberazioni, vengono o allontanati, o quantomeno messi sulla “lista nera” e non ripresentati alla successiva tornata elettorale. Sono cioè sotto ricatto.

Questo è il triste stato della democrazia italiana (e, credo, anche quello di gran parte delle altre democrazie mondiali, cosa che però qui non c’interessa). Uno stato rispetto al quale, va detto, i cittadini sono corresponsabili: sempre pronti a protestare contro il Governo (spesso appellato solo come “Potere”), quante volte hanno protestato per l’allentarsi del rapporto con i loro rappresentanti? Quante proposte hanno loro avanzato, chiedendo che se ne facessero latori in Parlamento? Quante volte sono andati a chieder direttamente conto del loro operato di rappresentanti? In breve: quanti cittadini hanno discusso con il loro rappresentante in Parlamento?

A fronte di tutto ciò, i cittadini italiani stanno per esser chiamati a esprimersi in merito a una riforma che taglierebbe il numero dei Parlamentati, cosa che permetterebbe una riduzione della spesa pubblica stimato in percentuale dello 0,007 – quindi un  risparmio meno che esiguo. Una tale riforma non avrebbe alcun effetto sulla seconda e sulla terza condizione del buon funzionamento democratico dello Stato: ridurre i rappresentanti, infatti, non aumenterebbe il dibattito, né renderebbe i residui Parlamentari meno ricattabili e sudditi dei vertici dei loro partiti.

Le sole conseguenze che avrebbe la riforma sono sulla prima condizione, ma sarebbero pesantemente negative: aggraverebbero infatti la non rappresentatività dei deputati – i rimanenti farebbero da portavoce a un numero ancora maggiore di cittadini – e soprattutto renderebbe ancor più difficile ripristinarla – l’elettorato con il quale ciascuno di loro dovrebbe confrontarsi, in via diretta o indiretta, si allargherebbe, rendendo la cosa meno efficacie.

Questa è la ragione per cui considero il voto che ci attende il 20 settembre alla stregua di quello costituzionale del 2016: un referendum cui votare NO per preservare la possibilità almeno di sperare nella rinascita di una rappresentatività oggi de jure presente, ma de facto azzerata. Se il taglio dei parlamentari avvenisse, sarebbe il sugello di quell’azzeramento: visto che il Parlamento è fatto solo di privilegiati pagati per premere bottoni a comando, meglio ridurne il numero – ragionamento entimematico che si completa con “e lasciando che continuino a svolgere solo quella mansione servile”. Se invece il numero dei parlamentari resterà invariato, sarà possibile proporre delle semplici riforme di regolamento, atte a garantire che gli eletti tornino a fare i rappresentanti e non i premibottoni.

Ne va del nostro futuro democratico.

 

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