Bandiere a mezz’asta per la vergogna di uno Stato che confonde i rei con gli eroi

Fin quando ho imparato a conoscerlo – cioè ben prima della sua “discesa in campo” – Berlusconi è stato per me uno dei tanti avversari politici. Non ho mai apprezzato la sua concezione liberista del sistema economico, il modo in cui voleva gestire il sistema della comunicazione di massa, il tipo di cultura che voleva veicolare, il paternalismo populista, l’arcaica concezione maschilista, il conservatorismo dei costumi, la pretesa di trasformare la politica in una gestione d’azienda, la retorica del successo (sono uno che ama giocar bene e pareggiare, mai vincere), l’idolatria del denaro, e tanto altro.

Sono però un sincero democratico e ho rispetto per le idee altrui. Perfino di coloro che si dichiarano fascisti, con i quali ho sempre cercato di dialogare e confrontarmi. Come tanti, anche lui era un avversario da combattere lealmente sul campo delle idee. Dal punto di vista politico, perciò, oggi meriterebbe onori che spettano a qualsiasi essere umano che la pensa diversamente: non mi dispererei per la sua morte, anche perché nulla di personale mi legava a lui, ma non intaccherei il lutto di chi lo sentiva vicino.

Ma Berlusconi non era solo un uomo con idee diverse dalle mie: era un condannato a quattro anni per frode fiscale (poco importa se ridotti ad alcuni mesi di servizio sociale, a causa dell’età e della fedina pulita, la condanna resta quella, rilevante), con una lunga lista di reti accertati e non puniti per prescrizione (che significa aver approfittato delle pieghe del sistema giudiziario per non pagare proprie colpe provate), con una moltitudine di altri processi finiti nell’impossibilità di accertare le sue responsabilità (in molti dei quali certo non sarà stato reo, ma difficilmente tutti inventati), alcuni dei quali su temi decisivi sia per la sua carriera politica, sia per gli interessi della collettività e persino della dignità dello stato democratico (quale la presunta, ancorché palese, compravendita di Parlamentari per salvare i suoi Governi).

Tutto questo, e molto altro, fa di Berlusconi non solo un politico con idee diverse, ma anche un delinquente di fatto – perché in uno stato democratico ipergarantista qual è l’Italia i pronunciamenti in cassazione devono essere considerati fatti.

E ai delinquenti non si può, né si deve, tributare alcunché, se non la sola pietà umana.

Che questo Governo abbia invece dichiarato un Lutto Nazionale in onore di un delinquente – specifico ancora, per chiarezza: per un uomo condannato in via definitiva e con diversi altri reati accertati dalla Magistratura e non puniti – non è semplicemente “divisivo”: è vergognoso. Dimostra che ancor oggi, dopo la sua morte, i vertici dello Stato sono collusi con la malversazione, non foss’altro perché ne omaggiano un autore.

E se da un lato è consolante vedere quanta popolazione si rifiuti di osservare tale lutto, è invece drammatico osservare non solo quanta non lo fa, immemore o ignava, ma anche come chi dovrebbe tenere alta la bandiera della serietà e dell’onestà abbia diplomaticamente glissato su questa vergogna, prendendo le distanze politiche, cosa banale, ma non quelle morali, cosa fondamentale.

Le bandiere a mezz’asta, dunque, hanno un senso: quello di celebrare la Vergogna Nazionale di questo lutto.

Lungo e molto buio è il tunnel in cui procedono questo sconsiderato Paese e i suoi cittadini.

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La fuga dei Cottarelli

Mentre imperversano le critiche degli ADeP (Antagonisti Duri e Puri) alla neosegretaria, colpevole dell’inescusabile delitto politico di farsi consigliare il colore degli abiti, continua l’esodo dal PD di coloro che l’avevano reso un partito di centrodestra. Un fenomeno irreversibile che, con una parafrasi resa attuale dal nome dell’ultimo transfuga, potremo chiamare “fuga dei Cottarelli”.

Economista dai molti e prestigiosi incarichi internazionali, Carlo Cottarelli ha iniziato a muoversi in ambito politico abbastanza tardi, grazie a un incarico in campo fiscale offertogli dal Governo Letta nel 2013. Più tardi (2019) ha fatto parte della corrente di Forza Italia facente capo a Mara Carfagna e ha lavorato al programma di Azione e +Europa, tranne presentarsi inopinatamente alle elezioni del 2022 con il PD, ancorché da non iscritto, diventando Senatore, incarico abbandonato dopo pochi mesi – cioè qualche giorno fa – a causa del “disagio” provato dal cambiamento del partito con l’avvento di Elly Schlein.

Le ragioni del “disagio” Cottarelli le ha spiegate meglio l’8 maggio con una lettera a Repubblica e un’intervista al Corsera. In quest’ultima leggiamo che esse consistano nello “spostamento del PD in un’area lontana dai miei valori liberaldemocratici”. Ora, la Schlein – specie nel suo libro La nostra parte. Per la giustizia sociale e ambientale, insieme – ha ben detto molte cose riguardo agli indirizzi futuri della politica del PD, ma non risulta abbia parlato di abbandono del mercato e svolta verso i piani quinquennali: cosa caratterizzerebbe dunque il presunto allontanamento dai “valori liberaldemocratici”? Su richiesta dell’intervistatore, Cottarelli elenca cinque fattori: “Il tema dell’energia nucleare, il termovalorizzatore, il freno al superbonus, anche l’utero in affitto o alcuni aspetti del job acts”. A ben guardare, però, tali fattori non sembrano aver a che fare con quanto lamentato dal fuggitivo: i primi due non riguardano la politica economica, bensì scelte legate alla gestione dell’ambiente; altrettanto vale per il quarto, che concerne questioni strettamente etiche; il terzo è addirittura un intervento in difesa dei valori liberaldemocratici, essendo i bonus interventi statalisti che “drogano” il mercato, ostacolando la sua autoregolazione; solo l’ultimo può esser letto come lontano da quei valori, ma per affermarlo andrebbe confrontato con quanto viene proposto in sua sostituzione.

Che qualcosa non funzioni deve averlo percepito anche Cottarelli, che di seguito aggiunge precipitosamente: “Ma questi sono temi specifici, non il tema fondante”. Alla domanda del giornalista su quale sia allora quel “tema fondante”, la risposta è finalmente illuminante: “Il ruolo del merito nella società e il peso che debba avere l’uguaglianza delle opportunità rispetto all’uguaglianza redistributiva. Entrambi sono importanti ma è il peso relativo che conta”.

Detto in parole più concrete, il “disagio” del transfuga è dovuto al diverso equilibrio posto dalla neosegretaria tra “merito” – che nelle nostre società significa guadagno più alto e possibilità di accumulare ricchezze – e “redistribuzione” – cioè l’azione con la quale il governo, fuori dal mercato, cerca di limitare il divario tra ricchi e poveri. Un divario, peraltro, che influenza anche quella eguaglianza delle opportunità che Cottarelli contrappone all’eguaglianza redistributiva, perché – come dimostra la bassissima mobilità sociale del nostro paese – se sei povero e ti collochi in classi sociale basse crollano anche le tue opportunità e possibilità di avvalerti del merito.

Tutto molto chiaro: il fuggiasco è a disagio non perché il PD abbandoni i “valori liberaldemocratici”, cosa non vera, bensì perché li declina all’interno di una politica di lotta alla sperequazione, ossia di sinistra, mentre lui li ha sempre fatti valere entro una politica di mantenimento di forti differenze economiche e sociali, ossia di destra. Né la cosa deve sorprenderci, vista non tanto la sua personale condizione (si può esser ricchi e perseguire l’ideale dell’abolizione della sperequazione, lo hanno fatto in tanti, spesso persino con qualche risultato), quanto i suoi passati posizionamenti politici, sempre ben orientati a destra.

Stando così le cose, ben venga la fuga dei Cottarelli: si tratta infatti di una pulizia di rappresentanti e quadri indispensabile a far sì che il più grande partito italiano non di destra possa diventare anche il più grande partito italiano di sinistra e, allo stesso tempo, del segno che il cambiamento di segreteria qualche risultato lo sta già dando. Con buona pace di tutti coloro che, arroccati su oniriche posizioni massimaliste, continuano a parlare solo di armocromisti e di modifiche dei generi grammaticali.

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Discutere l’omogenitorialità resta un tabù

C’è poco da fare, oggigiorno ci sono temi su cui non è possibile discutere, argomentare, confrontarsi, ma solo schierarsi e difendere la propria posizione senza ascoltare realmente l’interlocutore. Persino tra filosofi. Uno di questi temi è l’omogenitorialità, intrico di questioni estremamente complesse e fortemente ramificate che ciascuno dei contenenti si sforza di ridurre, mostrando quelle a suo pro e nascondendo quelle che gli creano problemi. Come nel caso della recente presa di posizione della ministra Roccella e delle critiche che le rivolge, dalle pagine di Domani, il filosofo Gianfranco Pellegrino.

La ministra, uscendo per una volta dalle posizioni ideologiche di stampo cattolico e “naturalistico”, solleva un problema – udite udite – di diritto: quello dei figli omogenitoriali di conoscere i loro genitori biologici, da lei denominato, forse in modo un po’ maldestro, “diritto di conoscere l’origine”. Un diritto, appunto, che pare ben difficile contestare: qualsiasi significato e valore culturale si voglia attribuire alla radice biologica, essa incontestabilmente c’è, e togliere a un essere umano la possibilità di conoscerla – come spesso accade nei casi di procreazione assistita omogenitoriale (e talvolta anche eterogenitoriale) – ha tutta l’aria di essere un intollerabile atto d’autorità perpetrato dalle coppie e che spetterebbe proprio agli Stati impedire. Certo, questo diritto non è sufficiente a chiudere il discorso, perché questioni in gioco ce ne sono molte altre, prima tra tutte quella, estremamente scottante, del riconoscimento dello status di quei bambini di fatto dati alla luce con quel tipo di modalità; ma l’esistenza di tali questioni non cancella in alcun modo il “diritto” citato dalla ministra, una soluzione delle quali dovrebbe in qualche modo tenerne conto.

Non sembra essere di quest’avviso Pellegrino, il quale si sforza di far sparire dal dibattito quel diritto. In primo luogo spostando la discussione su un terreno più favorevole: quello dell’identità, tema notoriamente complesso e indecidibile sul quale, proprio per questo, è facile far agire la retorica. Infatti, posizionatosi su questo terreno Pellegrino può sì riconoscere che il dato biologico è ineludibile, ma anche che la biologia non è tutto, anzi, che l’identità proviene molto più dai rapporti di cura, i quali “prescindono quasi totalmente” da essa. Appunto: “quasi”. Proprio quel “quasi” su cui verteva il diritto sollevato dalla ministra, del quale però Pellegrino sembra disinteressarsi.

Con una quache ridondanza, il Nostro ripete l’argomento riguardo alle “origini” – il termine usato dalla ministra – sostenendo, giustamente, che essa non si riduce certo alla sola discendenza cromosomica: c’è molto altro, storia, cultura, eventi sociali, che sono in parte anche comuni. Concludendone che l’identità – della quale, peraltro, la ministra non faceva menzione e che è entrata illecitamente nell’argomento – non può essere ricondotta alla mera radice biologica, se non attraverso “mitologie di sangue e di razza”. Cosa che, invero, può valere solo se volessimo cancellare l’importanza degli altri fattori che fanno sì che un individuo sia proprio colui che è, ma che – se è vero quel che anche Pellegrino concede, ovvero che la biologia è uno dei dati ineludibili dell’identità – non toglie affatto il diritto di un essere umano di conoscere anche le sue origini biologiche.

Che aldilà della retorica l’argomento faccia acqua, lo testimonia comunque la conclusione dell’articolo di Pellegrino: “Francamente, talvolta, si vorrebbe che persone come Roccella si facessero una chiacchierata con i molti bambini e bambine in situazioni del genere, per sostenere la saldezza sorridente della loro identità”. Un argomento del tutto incongruo alla questione di partenza, vale a dire del loro diritto di conoscere il proprio genitore biologico, che essi possono ben non esercitare, ma che resta tale e che il Nostro ha sorridentemente saltato a piè pari. Assieme a tanti altri temi spinosi connessi all’omogenitorialità, che discutere pare essere però un tabù: ha davvero diritto di avere un figlio chi, senza handicap che glielo impedicano, ha liberamente scelto di vivere con una persona con cui non può averlo? Ha davvero senso mettere in moto una macchina medica ed economica per far sì che lo possa avere in altro modo? E così via.

Francamente, talvolta, si vorrebbe che persone come Pellegrino dedicassero più tempo alla letteratura e leggessero libri come Sangue innocente di P.D. James, nel quale vengono messe in scena le angosce insoddisfatte di chi vuol conoscere il padre biologico (in quel caso nemmeno connesse a famiglie omogenitoriali) e si mostra come possano portare a drammi personali. La letteratura, fin dalle origini della cultura, può aiutarci a uscire dalle secche ideologiche.

Nel frattempo Pellegrino ha aggiunto altre considerazioni in un nuovo articolo pubblicato su Domani. Me ne occuperò nei prossimi giorni.

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