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Analfabetismo funzionale bipartisan

Mentre ero in vacanza, sul terrazzino (privato) adiacente al mio, all’aperto di fronte al mare, una ragazza (italiana) forse venticinquenne, seduta al (proprio) tavolino, consultava il telefono indossando la mascherina. Poche ore dopo l’ho vista tornare, in motorino con il ragazzo coetaneo, sempre indossando la mascherina.

Di fronte a fenomeni di questo tipo la mia reazione è identica a quella che ho di fronte a chi rifiuti di indossare la mascherina in luoghi pubblici al chiuso, o neghi l’esistenza di un problema virus: né odio, né paura, né reprimenda, ma solo amareggiato sconcerto per il manifesto analfabetismo funzionale.

Si, perché qui – come sempre, peraltro – la questione non è la posizione che si prende, ma come la si prende. Chi indossa la mascherina in assenza di altri e per giunta all’aperto non ha semplicemente capito un accidente né sul covid, né sul perché è importante usare le mascherine: gli hanno detto di indossarle e lo fa, ottusamente, senza preoccuparsi di capirne il perché. Esattamente come chi afferma che le mascherine sono un inutile imposizione del “potere”, perché (per esempio) il virus “non è nell’aria” o “è più piccolo del tessuto e non viene fermato”: gli hanno detto che il “potere” è sempre “cattivo”, e lui si oppone, ottusamente, senza preoccuparsi di capire come funziona il contagio.

Questo pervasivo analfabetismo funzionale bipartisan è l’autentica minaccia del nostro tempo: è quello che permette tanto la dilagante omologazione, quanto il proliferare di movimenti antagonisti – di destra, di sinistra e “nédidestranédisinistra” – tutti immancabilmente campati per aria e alla fin fine funzionali all’unico “potere” che abbia oggi senso chiamar tale – quello economico del consumo.

E’ il medesimo analfabetismo funzionale che il prossimo fine settimana porterà milioni di persone alle urne per decidere su una riforma istituzionale pur senza aver capito cosa sia la democrazia rappresentativa, o per eleggere dei rappresentanti istituzionali senza essersi curati di comprendere che tipo di società propongano e se sia davvero realizzabile.

Ma è possibile combattere l’analfabetismo funzionale? In teoria certamente sì, ma in pratica francamente non saprei dirlo. Anche perché non appena si inizi a superarlo ci si accorge che la realtà è più complessa di quel che credevamo e che ci dicevano i media, i politici e il Mulino Bianco. Così diversa da far apparire impossibili e persino ingiusti molti dei nostri sogni. E di fronte a questa scoperta i più arretrano, preferendo chi l’ignoranza, chi lo scontro, chi la delega a una qualche autorità che gli prometta qualcosa.

Così, alla fine resta solo lo sconcerto. Bipartisan.

Alzare la rappresentatività, non tagliare i rappresentanti

Quando la democrazia nasce ad Atene, tra il VI e il V secolo a. C., il suo esercizio prevede che tutti i cittadini adulti di sesso maschile (tra il 10 e il 20 per cento degli abitanti della città, essendo esclusi le donne, i minori e gli schiavi) abbiano accesso alla gestione del potere attraverso la possibilità di avanzare proposte, partecipare ai dibattiti politici e votare le decisioni esecutive. La città-stato di Atene conta tra i due e i trecentomila abitanti, cosicché la platea dei partecipanti oscilla tra le trenta e le cinquantamila unità: moltissime, ma ancora in qualche modo gestibili per realizzare quella che oggi chiamiamo “democrazia diretta”.

Quando la democrazia si riaffaccia nella modernità, svariati secoli più tardi, gli Stati che la ripropongono non sono più città, gli aventi diritto non più poche decine di migliaia bensì milioni e vivono a distanze spesso troppo ampie per potersi incontrare. Nasce per questo la democrazia rappresentativa, la quale prevede che ad avanzare proposte, discuterle e deliberare attraverso il voto non siano più i cittadini, bensì dei rappresentanti da loro nominati per via elettiva. La loro funzione è quella di essere dei portavoce dei cittadini nei diversi momenti della vita democratica, quello propositivo, quello dibattimentale e quello deliberativo. Ma affinché questo ruolo possa essere svolto in modo adeguato, ossia mantenendo le specificità della democrazia ateniese, sono indispensabili una serie di condizioni:

  1. che gli eletti rappresentino realmente i cittadini;
  2. che in Parlamento vi sia dibattito;
  3. che la votazione decisionale sia libera.

La prima condizione può essere soddisfatta solo se il rappresentante mantiene un costante contatto con i cittadini che lo eleggono; ma perché ciò avvenga è necessario tanto che egli si presenti spesso sul territorio per confrontarsi con i suoi elettori, quanto che vi abbia costantemente dei collaboratori i quali, in spazi visibili e sempre aperti, raccolgano le proposte dei cittadini, le discutano con loro, le elaborino, le trasmettano all’eletto che deve rappresentarle in Parlamento.

La seconda condizione può essere soddisfatta solo se il Parlamento non blocca le discussioni ogniqualvolta il Governo vuol riaffermare la propria forza nonostante sia debole, o è indisponibile alla mediazione con il resto del Paese, o vuol “forzare” le deliberazioni per qualche motivo di parte, e via dicendo.

La terza condizione può essere soddisfatta solo se il singolo rappresentante non è ostaggio del partito politico cui fa parte.

Non è difficile rendersi conto che nessuna delle tre condizioni vengono oggi soddisfatte.

La prima non lo è perché gli uffici locali dei deputati, che un tempo c’erano, sono stati progressivamente aboliti, così come il loro periodico confrontarsi con gli elettori: erano pratiche faticose e onerose (gli alti stipendi dei deputati servivano a quello, a stipendiare dei collaboratori, non a comprarsi le barche), così sono state sostituite dalle passerelle televisive – che però sono unilaterali e non permettono la raccolta delle proposte dei cittadini e il confronto con essi, elementi chiave della rappresentanza.

La seconda non lo è perché ormai si governa a colpi di fiducia, di decreti, di manovre omnibus entro le quali nascondere le norme su cui vi sia dissenso, mentre le proposte dei cittadini non trovano neppure l’occasione per essere discusse.

La terza non è soddisfatta perché i deputati sono selezionati dai partiti già prima della loro elezione (cosa che di per sé ha senso e non è in conflitto con la democrazia) in funzione soprattutto della loro fedeltà ai vertici dell’organismo e, nel caso entrino con questo in conflitto nel corso di deliberazioni, vengono o allontanati, o quantomeno messi sulla “lista nera” e non ripresentati alla successiva tornata elettorale. Sono cioè sotto ricatto.

Questo è il triste stato della democrazia italiana (e, credo, anche quello di gran parte delle altre democrazie mondiali, cosa che però qui non c’interessa). Uno stato rispetto al quale, va detto, i cittadini sono corresponsabili: sempre pronti a protestare contro il Governo (spesso appellato solo come “Potere”), quante volte hanno protestato per l’allentarsi del rapporto con i loro rappresentanti? Quante proposte hanno loro avanzato, chiedendo che se ne facessero latori in Parlamento? Quante volte sono andati a chieder direttamente conto del loro operato di rappresentanti? In breve: quanti cittadini hanno discusso con il loro rappresentante in Parlamento?

A fronte di tutto ciò, i cittadini italiani stanno per esser chiamati a esprimersi in merito a una riforma che taglierebbe il numero dei Parlamentati, cosa che permetterebbe una riduzione della spesa pubblica stimato in percentuale dello 0,007 – quindi un  risparmio meno che esiguo. Una tale riforma non avrebbe alcun effetto sulla seconda e sulla terza condizione del buon funzionamento democratico dello Stato: ridurre i rappresentanti, infatti, non aumenterebbe il dibattito, né renderebbe i residui Parlamentari meno ricattabili e sudditi dei vertici dei loro partiti.

Le sole conseguenze che avrebbe la riforma sono sulla prima condizione, ma sarebbero pesantemente negative: aggraverebbero infatti la non rappresentatività dei deputati – i rimanenti farebbero da portavoce a un numero ancora maggiore di cittadini – e soprattutto renderebbe ancor più difficile ripristinarla – l’elettorato con il quale ciascuno di loro dovrebbe confrontarsi, in via diretta o indiretta, si allargherebbe, rendendo la cosa meno efficacie.

Questa è la ragione per cui considero il voto che ci attende il 20 settembre alla stregua di quello costituzionale del 2016: un referendum cui votare NO per preservare la possibilità almeno di sperare nella rinascita di una rappresentatività oggi de jure presente, ma de facto azzerata. Se il taglio dei parlamentari avvenisse, sarebbe il sugello di quell’azzeramento: visto che il Parlamento è fatto solo di privilegiati pagati per premere bottoni a comando, meglio ridurne il numero – ragionamento entimematico che si completa con “e lasciando che continuino a svolgere solo quella mansione servile”. Se invece il numero dei parlamentari resterà invariato, sarà possibile proporre delle semplici riforme di regolamento, atte a garantire che gli eletti tornino a fare i rappresentanti e non i premibottoni.

Ne va del nostro futuro democratico.

 

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Perché No (senza volere la caduta del Governo)

Eccoci dunque arrivati al giorno del voto, dopo una campagna referendaria assurda, forse ancora più assurda di quanto non sia ormai, purtroppo, normale. Una campagna nella quale solo una esigua parte di chi era schierato per il No ha informato e discusso sul merito, mentre tutti gli altri – del Sì e del No – hanno solo insistito su questioni legate ai rispettivi schieramenti: da una parte tutti contro Renzi, dall’altra tutti a suo favore e contro figuri certo loschi, ma ormai sepolti. Della Riforma, poco o nulla.

Lo avevo già detto, ma voglio ribadirlo in modo chiaro: non sono per il No perché voglia la caduta del Governo, ma per ragioni che stanno nel testo costituzionale modificato. Personalmente, in caso di vittoria del No auspico che Renzi rimanga. Chi mi segue sa che lo ritengo un avversario politico e un pericolo; tuttavia è oggi disgraziatamente il male minore: di lui è chiaro quali danni possa provocare, mentre di altri (il M5S, la Lega) non è neppure chiaro questo (l’uscita dall’Euro, per esempio, sarebbe un insensato e dannosissimo anacronismo). Quindi, che Renzi rimanga dov’è almeno finché qualcuno meno dannoso di lui non possa prenderne il posto.

Ma affinché i danni prodotti da lui o da altri non siano troppo gravi, affinché la politica non si trasformi definitivamente in una grossolana competizione basata sul marketing nella quale chi “vince” fa poi quel che gli pare senza contrappesi e senza dibattito pubblico, affinché in questo Paese la Democrazia non perda terreno, è necessario che la Riforma in discussione venga bocciata.

Ho cercato di spiegarne le ragioni “ideali” nel mio precedente intervento. Adesso vorrei aggiungere alcuni dettagli più “concreti”.

  1. si dice che la riforma “semplifichi”  la vita parlamentare e renda più “veloce” la promulgazione delle leggi. Non è esattamente vero (i rapporti con le Regioni divengono ancor più ambigui, le leggi erano varate spesso in tempi brevi anche prima e le lentezze dipendono dalla burocrazia amministrativa non da quella parlamentare), ma soprattutto è inaccettabile che possa avvenire al costo della rappresentanza: un Senato eletto che torna a vagliare e discutere le leggi già discusse alla Camera è un valore e una garanzia, non uno spreco. Se poi i ruoli dei due rami del Parlamento debbano essere rivisti può essere materia di discussione; che uno dei due venga trasformato in un fantoccio di nomina politica, no.
  2. Si dice che la riforma riduca “i costi della politica”: è falso, la riforma riduce proprio la politica, perché diminuisce i rappresentanti dei cittadini e taglia la discussione sul merito delle leggi. Per ridurre i costi della politica non serviva una riforma costituzionale, bastava una legge che riducesse in modo congruo lo stipendio dei Deputati, chiedesse rigorosamente conto delle loro spese prima di liquidarle e tagliasse via l’enormità di privilegi di cui godono (vedi lo scandalo buvette). Ma di quello né si parla, né mai si parlerà.
  3. Si dice che la nuova Costituzione garantisca la governabilità (lo si diceva anche all’epoca del referendum sul maggioritario, ma evidentemente ci si sbagliava): non so se sia vero o no, dico solo che non è questo il modo per ottenerla, perché non è accettabile farlo aumentando il potere nelle mani del Governo e togliendo controllo al Parlamento. Qui, proprio qui, si nasconde il deficit democratico della riforma, e il fatto che il suo maggior sostenitore dica di non essere disposto a governare ancora se la modifica non passa ne è dimostrazione: teme di essere costretto ad ascoltare, discutere, tessere politiche condivise, costruire mediazioni, mentre il suo desiderio (lo sappiamo dall’esperienza) sarebbe quello di governare ad libitum, in regale autonomia.
  4. Si dice che la riforma consenta una maggiore “efficienza”; si omette però di dire rispetto a quale fine (non c’è un’efficienza “in sé”). Tenendo conto della cultura dominante e conoscendo l’immaginario di riferimento di chi sostiene le modifiche, si capisce che il riferimento è a un “fare” qualsivoglia, che affermi il valore (in realtà astratto) del “non restare fermi”, anzi dell'”essere veloci”, perché questo e solo questo permetterebbe di essere al passo coi tempi e di “competitivi” con il mondo moderno. Come ho scritto altre volte su questa rubrica, si tratta di una cultura superficiale e deteriore, strettamente intessuta con l’individualismo proprietario, che è il cancro dell’epoca in cui viviamo. Se la riforma è efficacie rispetto a tuttociò, allora questa è un’altra ragione per respingerla.
  5. La nuova Costituzione assegna la soluzione dei contenziosi tra Potere Centrale ed Enti Locali al Governo, che può dichiarare il tema “di interesse nazionale” ed avocarlo interamente a sé. Si tratta di una completa espropriazione dei diritti delle comunità locali, senza neppure spazi di discussione e/o contrattazione (e taciamo del fatto che ciò non valga per le Regioni a Statuto Speciale, cioé quelle che già oggi godono di una decisionalità superiore rispetto alle altre…).
  6. La riforma è, infine, scritta malissimo, con ogni probabilità perché fatta in fretta. Ed è scritta male, si badi, proprio dal punto di vista grammaticale e logico, ancor prima che da quello giuridico. Ma scrivere male dal punto di vista logico e grammaticale apre spettacolari e pericolosissime incoerenze, che in prospettiva provocheranno conseguenze assai gravi, sia in termini di inadeguatezza costituzionale, sia in quelli di paralisi decisionale.

Ovviamente potrei dire di più, anzi ho sicuramente dimenticato alcune considerazioni critiche importanti. Ma c’è chi meglio di me ha analizzato il testo riformato e mostrato i suoi enormi difetti, per cui ho solo il compito di segnalare alcune fonti di questo genere, come il libro di Luca Benci, In otto punti le ragioni del No al Referendum Costituzionale, oppure il più neutrale confronto tra il nuovo e il vecchio testo della Costituzione, leggendo attentamente il quale saltano agli occhi le incoerenze, la pessima redazione e anche alcune terrificanti “sorprese”: perché, per esempio, nessun membro del Parlamento rappresenta più “la Nazione”, come avveniva prima (art. 67)?

Non mi resta che augurarvi buona meditazione, sperando di svegliarsi lunedì in un Paese che non abbia perso ancora altri pezzi delle garanzie democratiche.

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