Ci stiamo avvicinando a un anno di pandemia, ma i fatti stanno sempre più mostrando come il suo impatto superi anche le più pessimistiche previsioni. Dopo un anno, infatti, le conoscenze scientifiche sul virus continuano a essere molto limitate e, riguardo ai dettagli, non ancora sufficientemente condivise (aspetto essenziale per definirne l’affidabilità); sono ormai arrivati anche i vaccini, ma da un lato non è chiaro quale sarà il loro reale impatto su un virus che ha attecchito a livello mondiale, dall’altro i tempi di vaccinazione paiono lunghissimi (e non solo in Italia); le stesse strategie di contenimento profilattico, in larga misura indipendenti dalla conoscenza del virus (per il distanziamento interpersonale basta sapere che la trasmissione avviene per via aerea), continuano almeno in Europa a essere attuate in modo incerto e discontinuo, cosa che le rende di fatto insufficienti.
Il primo fenomeno era in realtà previsto: chi conosca un po’ la storia e la metodologia della scienza sa che le conoscenze hanno bisogno di tempo per consolidarsi. Il problema vero è piuttosto il fatto che la maggior parte dei cittadini non sia in grado né di comprenderlo, né tantomeno di accettarlo. Come ho spiegato altrove (si veda il mio La Caporetto del pensiero razionale. Una lettura pratico-filosofica della pandemia), gran parte delle colossali aberrazioni del dibattito pubblico sulla pandemia sono da addebitarsi proprio all’incapacità di accettare tanto che un fenomeno di questo genere possa essersi verificato, quanto che non si sia realmente in grado di fronteggiarlo e ridurne drasticamente la pericolosità. Un’incapacità che è sollecitata da motivazioni diverse (timori per la propria vita o per il futuro, concrete e immediate difficoltà di sopravvivenza, fragilità personali, povertà culturale che rende pesante cambiare anche pro tempore le modalità quotidiane di vivere, ecc.), ma che dopo un anno avrebbero dovuto essere state metabolizzate: il fatto che non sia avvenuto solleva enormi perplessità sulla cultura in cui viviamo e preoccupa fortemente.
Anche il secondo fenomeno era in buona parte prevedibile, perché la produzione e la distribuzione in emergenza di un tal numero di farmaci, oltretutto di nuova progettazione e dei quali (com’è del resto normale in questi casi) potremo sapere solo a posteriori la reale efficacia e le possibili controindicazioni, non poteva non essere complicata e farraginosa – e il nostro attuale sguardo sul fenomeno non tiene conto delle aree mondiali meno ricche e organizzate, che però in una pandemia hanno un effetto feedback anche su quelle più avvantaggiate. Anche in questo caso, però, il problema è aggravato dalle resistenze: è sorprendente il numero di cittadini italiani ed europei che temono non già che il vaccino non sia sufficientemente efficace, bensì che sia proprio dannoso, ed è sconfortante ascoltarne le motivazioni, resistenti anche alle argomentate e informate spiegazioni date loro da medici ed esperti, ma anche facilmente confermabili da una lettura non pregiudiziale.
Il terzo fenomeno, infine, è sì responsabilità diretta di chi ha l’onere e l’onore di dirigere le nostre società, i governi e gli amministratori, anche se indirettamente è anch’esso il prodotto dei cittadini: sono loro, infatti, ad aver espresso ed eletto quei governi e quegli amministratori; e sono sempre loro che protestano e boicottano ogni normativa che abbia un qualche costo, sia esso economico – come nel caso delle tasse, sempre evase – o esistenziale – come nel caso delle normative anticovid, da alcuni surrelmente avvicinate a provvedimenti nazifascisti.
Tuttavia, nel nostro sventurato Paese, sempre all’avanguardia nei più deteriori fenomeni di costume (siamo primatisti nell’evasione fiscale, nel numero delle auto pro-capite, nella scarsità di libri letti e nel numero di governi cambiati), su quest’ultimo aspetto si è superato ogni limite con la surreale crisi di Governo di questi giorni: scoppiata nel bel mezzo dell’emergenza, proprio mentre iniziava il complesso meccanismo delle vaccinazioni e si rialzavano per l’ennesima volta i numeri del contagio; attuata con le ormai abituali forme delle sfide rusticane e personalistiche, esibite sui media e per ragioni neppure spiegate con la dovuta chiarezza – prova ne sia che tutti hanno un’idea diversa sul perché dello scontro – e che, giuste o sbagliate che siano, avrebbero dovuto essere portate avanti con ben altri metodi e ben altra cautela. Ma si sa, oggi la politica è soprattutto mediatica, ai programmi si sono sostituite le persone e queste hanno bisogno di mantenere sempre alta la loro visibilità, evidentemente anche quando la casa sta bruciando.
E allora, stando così le cose, è davvero difficile continuare a dire e dirsi che andrà tutto bene, banalmente perché nessuno sta facendo nulla perché ciò accada. Ed è qui che la palla torna ai cittadini: sta a loro, con uno scatto d’orgoglio, essere – come spesso affermano – migliori dei loro governanti, ricordando ai litiganti che la priorità è venirne fuori in fretta. Sul come possano farlo, è difficile dire; certo, passaggi ineludibili non possono che essere la piena accettazione di una condizione drammatica e di tutte le sue scomode e fastidiose conseguenze; il conseguente accantonamento di polemiche, lamentele e proteste; un maggiore esercizio quotidiano della creatività nell’affrontare situazioni inusuali e solo apparentemente “limitanti”; infine – e forse soprattutto – una costante pratica della solidarietà nei confronti di quella minoranza che è davvero, e non solo esteriormente, colpita dalla pandemia e dalle sue conseguenze socioeconomiche.
Se non ci riusciranno, se continueranno a litigarsi come i polli di Renzo e a sfogarsi con il Governo per la pioggia che cade, allora sarà bene che i cittadini si preparino a periodi assai più duri di quelli che hanno attraversato nell’ultimo anno.