Archivio mensile:Maggio 2021

Era proprio necessario riaprire le scuole? Un dialogo sul tema

In questo anno e mezzo di pandemia una delle attività la cui chiusura è stata più conflittualmente dibattuta è la scuola. Personalmente non sono un insegnante e non ho mai insegnato, per cui non sono mai intervenuto sull’argomento, ma non posso nascondere che non sono mai riuscito a capire a pieno le alte lamentele che si alzavano riguardo alla didattica a distanza, così come trovavo surreale e segno di totale inconsapevolezza della realtà che si dicesse che la scuola era “sicura” (abbondano infatti fin dall’estate scorsa gli studi che dimostrano il contrario) o si richiedesse una “magica” ristrutturazione dei trasporti pubblici per permettere agli studenti di viaggiare distanziati (che, visto lo stato in cui essi versano, richiederebbe forse vent’anni).

Certo, mi è sempre stato chiaro che ci fossero realtà particolarmente critiche – territori mal serviti dalla rete informatica, famiglie disagiate, bambini che richiedono di essere seguiti direttamente -, che il cambiamento, rapido e imposto, non potesse essere di facile attuazione e anche che, ovviamente, l’insegnamento in presenza non fosse in toto sostituibile dalla DAD. Tuttavia, non capivo perché non si cercasse di cogliere l’occasione per aggiornare un sistema notoriamente inadeguato, trovando i modi per valorizzare forme atipiche di insegnamento, per tamponare oggi al meglio l’emergenza e magari per utilizzare meglio domani quelle tradizionali, una volta tornati a quella “normalità” che, in precedenza, era comunque largamente vituperata.

In questo mi aiutava la mia personale esperienza. Da studente, fin da piccolo sono sempre andato a scuola controvoglia, seguendo le lezioni con pochissima attenzione e studiando quasi esclusivamente a casa, tanto da arrivare a risultati brillanti solo quando, diventato maggiorenne e firmandomi da solo le giustificazioni delle assenze, a scuola andavo solo la metà dei giorni; all’università, poi, ho fatto lo studente lavoratore, seguendo solo due corsi su diciotto, ma non per questo senza profitto. Il tutto senza avere particolari doti. Avessi avuto la DAD, la mia vita di studente sarebbe senza dubbio stata migliore. Da “docente”, poi, pur nel mio campo di nicchia e quasi sempre con discenti adulti, ho progressivamente capito quanto fosse deficitario affidarsi al solo lavoro in presenza (che nei corsi professionali è di solito cadenzato con pause di diverse settimane) e che il lavoro a distanza, svolto con più frequenti incontri in videoconferenza e con continui dibattiti sui forum, potesse essere una modalità migliore – come infatti sto attualmente sperimentando con soddisfazione. Quest’uso estremamente virtuoso delle tecnologie mi sembrava, fatte le debite differenze, utilizzabile con profitto anche nella scuola.

Ho così pensato che potesse essere interessante confrontarmi con alcuni dei docenti che conosco e che sono usciti dal coro dei “lamentanti”, per far loro alcune domande e conoscere la loro opinione sulle cose che mi destavano perplessità. Ho iniziato con Francesco Dipalo, filosofo, docente di Filosofia nei licei e consulente filosofico, con il quale anni addietro ho fatto un pezzo di strada nel campo della consulenza. Qui sotto il video della nostra conversazione, che rivela aspetti della situazione che raramente sono stati trattati dai media. Tra i quali spicca il fatto che tra gli studenti non ci fosse solo chi voleva tornare a scuola sentendosi limitato e recluso, come si è sentito spesso dire, ma anche tanti che avrebbero preferito non rientrare, timorosi di contrarre il virus e poi infettare, con gravi conseguenze, i familiari più anziani e a rischio…

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Quando un influencer fa politica, la politica è già di destra

Il Primo Maggio il rapper Fedez, dal palco del rituale concerto della Festa dei Lavoratori, si è lanciato in un (tutt’altro che inusuale, molti l’avevano fatto in passato) intervento “politico”, attaccando la Lega per i boicottaggi alla legge contro omofobia e transfobia, ma anche lamentando una presunta censura che sarebbe stata tentata ai suoi danni dalla Rai, che trasmetteva il concerto, in particolare dalla vicedirettrice di rete, in questo caso però in quota PD, partito che ha presentato il decreto legge in questione. Ne sono seguite ricche e variegate polemiche politiche, nonché il solito pugnar di posizioni avverse sui social network, piaccia o non piaccia ormai agorà del dibattito politico tra cittadini.

In tale agorà è parso emergere un sostanziale sostegno al rapper, offertogli anche da autorevoli rappresentanti della sinistra – due su tutti, l’ex segretario PD Zingaretti e l’importante rappresentate del medesimo partito Gianni Cuperlo. In alcuni casi quel sostegno arrivava esplicitamente “senza se e senza ma”, in altri era perfino arricchito da considerazioni tipo “fa quel che i partiti di sinistra non hanno il coraggio di fare”. In breve: il “ribelle” Fedez è sostanzialmente divenuto emblema e modello dell’opposizione (anche alla lottizzazione della RAI) e del cambiamento, una sorta di eroe della sinistra. Solo pochi sono usciti dal coro, alludendo (inutilmente) al “mestiere” che il rapper svolge assieme alla moglie – l’influencer – magari additando il cappellino della Nike indossato nel video che denunciava il tentativo di censura.

A me questa vicenda pare emblematica della condizione in cui versa la (in)cultura politica non solo dei partiti di sinistra, ma anche e soprattutto dei cittadini che in qualche modo si sentono da essi traditi. Una vicenda nella quale i più vedono solo l’apparenza e si lasciano sfuggire la sostanza, restandone in tal modo del tutto gabbati.

In primo luogo, è opportuno sottolineare che, sebbene la legge contro l’omotransfobia sia stata proposta e sostenuta da partiti di sinistra, la difesa dei diritti e dell’integrità delle minoranze non è un valore specifico ed esclusivo della sinistra, bensì è parte anche di culture politiche centriste e liberali; insomma è un principio ampiamente condiviso, compatibile anche con strutture sociali largamente divise in classi e che prevedano ampie sperequazioni, economiche e di opportunità. Solo determinate culture politiche particolarmente conservatrici riguardo ai costumi possono derogare un tal principio di valore, ma queste non sono “la destra”, bensì solo una sua parte estrema.

Detto questo, veniamo alla questione centrale. Fedez non è semplicemente un artista salito sul palco del concertone per cantare: è il socio della cosiddetta ditta “Ferragnez”, che – ben pagata – svolge il ruolo di influencer, vale a dire promuove questo o quel prodotto di mercato di vario genere, costituendo in tal modo un elemento portante di quel “sistema” contro il quale il rapper afferma poi di volersi ribellare. In altre parole, Fedez e la sua compagna sono il “braccio armato” delle multinazionali e delle banche che vi investono, di Bezos e di Gates, di tutti i “grandi vecchi” contro i quali chi si ritiene di sinistra spesso si scaglia, i quali senza personaggi come i Ferragnez, amplificatori del sistema pubblicitario che spinge al consumo, rimarrebbero senz’aria e senza soldi.

Il “ribelle” Fedez, ne fosse o meno consapevole (questo non possiamo saperlo), con la sua tirata del Primo Maggio ha alzato il rating della ditta Ferragnez, alzando conseguentemente anche il prezzo degli emolumenti che quella percepisce grazie al suo contribuire al funzionamento del sistema dei consumi, indispensabile base di quell’economia neoliberista che produce diseguaglianze, cataclismi ecologici, flussi migratori, nepotismi e corruzioni. Novello Principe di Salina, il rapper si scagliava contro le discriminazioni omotransfobiche per rafforzare le sperequazioni economiche, denunciava la censura affinché aumentasse la propria egemonia. Sacrificava, insomma, elementi non necessari al “sistema” per rafforzarne quelli vitali. Con tale e tanta sicurezza di rimanere impunito da indossare lo strumento di lavoro – il cappellino della Nike – fin nel video di denuncia. E faceva bene i propri conti, perché i più non se ne sono accorti. Peggio, alcuni hanno persino attaccato chi, magari con ironia, additava la truffa.

A tutto questo si potrebbero aggiungere altri non trascurabili dettagli, per esempio che, come emerso in seguito, la presunta censura era stata decisamente manipolata (l’audio della conversazione era tagliato e non rendeva conto né di chi, né di come gli fossero state dette le cose che riteneva censorie), che la diffusione urbi et orbi di una telefonata privata è una violazione di quella privacy di cui tanto ci si lamenta quando è la propria, ma non quando è di qualcun altro, e anche che alla legge contro l’omotransfobia non si oppone solo la Lega, ma anche diversi movimenti femministi (giusto per ricordare che niente è mai scontato). Ma sarebbe superfluo.

Basta e avanza infatti che i più si sentano di scrivere “io sto con Fedez” o, peggio, “Fedez ha avuto il coraggio che manca alla sinistra”: chi lo fa non ha capito come funziona il mondo in cui viviamo, chi siano coloro che dobbiamo combattere per cambiarlo, quali siano le priorità per il cambiamento. Che a non capirlo siano così tanti e così convinti significa solo una cosa: che in una società più giusta e meno sperequata non ci vivremo mai. E non solo per colpa dei tanto vituperati partiti, bensì per responsabilità dei cittadini.

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