In questo anno e mezzo di pandemia una delle attività la cui chiusura è stata più conflittualmente dibattuta è la scuola. Personalmente non sono un insegnante e non ho mai insegnato, per cui non sono mai intervenuto sull’argomento, ma non posso nascondere che non sono mai riuscito a capire a pieno le alte lamentele che si alzavano riguardo alla didattica a distanza, così come trovavo surreale e segno di totale inconsapevolezza della realtà che si dicesse che la scuola era “sicura” (abbondano infatti fin dall’estate scorsa gli studi che dimostrano il contrario) o si richiedesse una “magica” ristrutturazione dei trasporti pubblici per permettere agli studenti di viaggiare distanziati (che, visto lo stato in cui essi versano, richiederebbe forse vent’anni).
Certo, mi è sempre stato chiaro che ci fossero realtà particolarmente critiche – territori mal serviti dalla rete informatica, famiglie disagiate, bambini che richiedono di essere seguiti direttamente -, che il cambiamento, rapido e imposto, non potesse essere di facile attuazione e anche che, ovviamente, l’insegnamento in presenza non fosse in toto sostituibile dalla DAD. Tuttavia, non capivo perché non si cercasse di cogliere l’occasione per aggiornare un sistema notoriamente inadeguato, trovando i modi per valorizzare forme atipiche di insegnamento, per tamponare oggi al meglio l’emergenza e magari per utilizzare meglio domani quelle tradizionali, una volta tornati a quella “normalità” che, in precedenza, era comunque largamente vituperata.
In questo mi aiutava la mia personale esperienza. Da studente, fin da piccolo sono sempre andato a scuola controvoglia, seguendo le lezioni con pochissima attenzione e studiando quasi esclusivamente a casa, tanto da arrivare a risultati brillanti solo quando, diventato maggiorenne e firmandomi da solo le giustificazioni delle assenze, a scuola andavo solo la metà dei giorni; all’università, poi, ho fatto lo studente lavoratore, seguendo solo due corsi su diciotto, ma non per questo senza profitto. Il tutto senza avere particolari doti. Avessi avuto la DAD, la mia vita di studente sarebbe senza dubbio stata migliore. Da “docente”, poi, pur nel mio campo di nicchia e quasi sempre con discenti adulti, ho progressivamente capito quanto fosse deficitario affidarsi al solo lavoro in presenza (che nei corsi professionali è di solito cadenzato con pause di diverse settimane) e che il lavoro a distanza, svolto con più frequenti incontri in videoconferenza e con continui dibattiti sui forum, potesse essere una modalità migliore – come infatti sto attualmente sperimentando con soddisfazione. Quest’uso estremamente virtuoso delle tecnologie mi sembrava, fatte le debite differenze, utilizzabile con profitto anche nella scuola.
Ho così pensato che potesse essere interessante confrontarmi con alcuni dei docenti che conosco e che sono usciti dal coro dei “lamentanti”, per far loro alcune domande e conoscere la loro opinione sulle cose che mi destavano perplessità. Ho iniziato con Francesco Dipalo, filosofo, docente di Filosofia nei licei e consulente filosofico, con il quale anni addietro ho fatto un pezzo di strada nel campo della consulenza. Qui sotto il video della nostra conversazione, che rivela aspetti della situazione che raramente sono stati trattati dai media. Tra i quali spicca il fatto che tra gli studenti non ci fosse solo chi voleva tornare a scuola sentendosi limitato e recluso, come si è sentito spesso dire, ma anche tanti che avrebbero preferito non rientrare, timorosi di contrarre il virus e poi infettare, con gravi conseguenze, i familiari più anziani e a rischio…