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La fuga dei Cottarelli

Mentre imperversano le critiche degli ADeP (Antagonisti Duri e Puri) alla neosegretaria, colpevole dell’inescusabile delitto politico di farsi consigliare il colore degli abiti, continua l’esodo dal PD di coloro che l’avevano reso un partito di centrodestra. Un fenomeno irreversibile che, con una parafrasi resa attuale dal nome dell’ultimo transfuga, potremo chiamare “fuga dei Cottarelli”.

Economista dai molti e prestigiosi incarichi internazionali, Carlo Cottarelli ha iniziato a muoversi in ambito politico abbastanza tardi, grazie a un incarico in campo fiscale offertogli dal Governo Letta nel 2013. Più tardi (2019) ha fatto parte della corrente di Forza Italia facente capo a Mara Carfagna e ha lavorato al programma di Azione e +Europa, tranne presentarsi inopinatamente alle elezioni del 2022 con il PD, ancorché da non iscritto, diventando Senatore, incarico abbandonato dopo pochi mesi – cioè qualche giorno fa – a causa del “disagio” provato dal cambiamento del partito con l’avvento di Elly Schlein.

Le ragioni del “disagio” Cottarelli le ha spiegate meglio l’8 maggio con una lettera a Repubblica e un’intervista al Corsera. In quest’ultima leggiamo che esse consistano nello “spostamento del PD in un’area lontana dai miei valori liberaldemocratici”. Ora, la Schlein – specie nel suo libro La nostra parte. Per la giustizia sociale e ambientale, insieme – ha ben detto molte cose riguardo agli indirizzi futuri della politica del PD, ma non risulta abbia parlato di abbandono del mercato e svolta verso i piani quinquennali: cosa caratterizzerebbe dunque il presunto allontanamento dai “valori liberaldemocratici”? Su richiesta dell’intervistatore, Cottarelli elenca cinque fattori: “Il tema dell’energia nucleare, il termovalorizzatore, il freno al superbonus, anche l’utero in affitto o alcuni aspetti del job acts”. A ben guardare, però, tali fattori non sembrano aver a che fare con quanto lamentato dal fuggitivo: i primi due non riguardano la politica economica, bensì scelte legate alla gestione dell’ambiente; altrettanto vale per il quarto, che concerne questioni strettamente etiche; il terzo è addirittura un intervento in difesa dei valori liberaldemocratici, essendo i bonus interventi statalisti che “drogano” il mercato, ostacolando la sua autoregolazione; solo l’ultimo può esser letto come lontano da quei valori, ma per affermarlo andrebbe confrontato con quanto viene proposto in sua sostituzione.

Che qualcosa non funzioni deve averlo percepito anche Cottarelli, che di seguito aggiunge precipitosamente: “Ma questi sono temi specifici, non il tema fondante”. Alla domanda del giornalista su quale sia allora quel “tema fondante”, la risposta è finalmente illuminante: “Il ruolo del merito nella società e il peso che debba avere l’uguaglianza delle opportunità rispetto all’uguaglianza redistributiva. Entrambi sono importanti ma è il peso relativo che conta”.

Detto in parole più concrete, il “disagio” del transfuga è dovuto al diverso equilibrio posto dalla neosegretaria tra “merito” – che nelle nostre società significa guadagno più alto e possibilità di accumulare ricchezze – e “redistribuzione” – cioè l’azione con la quale il governo, fuori dal mercato, cerca di limitare il divario tra ricchi e poveri. Un divario, peraltro, che influenza anche quella eguaglianza delle opportunità che Cottarelli contrappone all’eguaglianza redistributiva, perché – come dimostra la bassissima mobilità sociale del nostro paese – se sei povero e ti collochi in classi sociale basse crollano anche le tue opportunità e possibilità di avvalerti del merito.

Tutto molto chiaro: il fuggiasco è a disagio non perché il PD abbandoni i “valori liberaldemocratici”, cosa non vera, bensì perché li declina all’interno di una politica di lotta alla sperequazione, ossia di sinistra, mentre lui li ha sempre fatti valere entro una politica di mantenimento di forti differenze economiche e sociali, ossia di destra. Né la cosa deve sorprenderci, vista non tanto la sua personale condizione (si può esser ricchi e perseguire l’ideale dell’abolizione della sperequazione, lo hanno fatto in tanti, spesso persino con qualche risultato), quanto i suoi passati posizionamenti politici, sempre ben orientati a destra.

Stando così le cose, ben venga la fuga dei Cottarelli: si tratta infatti di una pulizia di rappresentanti e quadri indispensabile a far sì che il più grande partito italiano non di destra possa diventare anche il più grande partito italiano di sinistra e, allo stesso tempo, del segno che il cambiamento di segreteria qualche risultato lo sta già dando. Con buona pace di tutti coloro che, arroccati su oniriche posizioni massimaliste, continuano a parlare solo di armocromisti e di modifiche dei generi grammaticali.

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Elly Schlein e i suoi (molti) nemici

Che la neosegretaria del PD Elly Schlein abbia davanti un percorso accidentato è chiaro a tutti, amici e nemici. Forse meno chiaro è dove si nascondano gli ostacoli più insidiosi. I più pensano infatti alle difficoltà interne di un partito burocratizzato e diviso in fazioni in perenne lotta per la supremazia; altri additano i molti punti deboli nella sua immagine di donna benestante, dichiaratamente omosessuale e con tre passaporti; altri ancora ne sottolineano l’inesperienza e il probabile ostracismo che riceverà dal potere economico. In realtà c’è di più e di peggio, un saggio del quale è stato offerto sulle pagine di Domani dall’economista Andrea Capussela in un articolo del 9 marzo.

In quell’articolo l’autore non si mostra ostile alla nuova guida del PD – semmai scettico riguardo al partito, ma ci può stare – e si limita a “offrirle dei dati” che potrebbero esserle utili per orientare la sua azione politica, riguardanti la crescita della produttività, il rispetto delle leggi e il numero di giovani laureati. È tuttavia singolare che vengano “offerti” non in valore assoluto, bensì in un confronto incrociato con gli analoghi numeri di due gruppi di paesi vicini all’Italia: “quello dei suoi pari (Francia, Germania e Spagna; e Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti), da un lato, e delle nazioni balcaniche, dall’altro”. Il raffronto dei dati mostra che l’Italia si situa inequivocabilmente sotto il livello dei “suoi pari” e in alcuni casi scivola fino a sfiorare i Balcani – anzi, quanto a laureati è messa perfino peggio, se si esclude la Romania. La conclusione dell’economista è che “se la Schlein ha aspirazioni balcaniche (…) prosegua così. Ma consideri che ogni sua priorità – diseguaglianze, clima diritti – può essere coordinata con quelle che i tre dati impongono”.

In realtà è facile vedere come tutto il discorso di Capussela ruoti attorno a un solo valore, cioè la crescita economica: le è direttamente collegato il primo dato, la crescita della produttività; ne è funzione il rispetto delle leggi, che favorisce quel motore della crescita che è l’innovazione; le è biunivocamente connesso anche il numero dei laureati, dipendente da quello delle grandi aziende. Le “aspirazioni balcaniche” cui allude l’economista, dunque, sono solo un modo sprezzante di definire un eventuale disinteresse per la crescita economica. Nulla di strano, visto che stiamo parlando dell’autore di un saggio, Il declino, che illustrava e stigmatizzava proprio il forte rallentamento della crescita nel nostro paese. Se non fosse, però, che la Schlein – prima nel suo libro-manifesto, poi nel suo programma elettorale per le primarie – ha non solo cancellato la parola crescita – sostituita dal termine “sviluppo” – ma ne ha anche spiegate le ragioni: perché la crescita danneggia l’ambiente. Una cosa, questa, incontestabile non solo per chi abbia una cultura ambientalista, ma anche per chi provi a immaginare il processo di ulteriore impiego di materie prime, utilizzo di energia per trasformarle, circolazioni di merci e persone, e via dicendo, su un pianeta che già oggi celebra il 28 luglio il giorno in cui ha esaurito le risorse biologiche rigenerabili in un anno. Un giorno che l’Italia celebra addirittura il 15 maggio, mentre – per guardare ai Balcani – per la Serbia cade il 7 agosto. La “balcanizzazione”, dunque, non solo è una necessità, ma non è neppure sufficiente: è necessario ridistribuire l’esistente, cambiando modello di sviluppo e smettendo di inseguire la crescita.

A tutto questo, però, Capussela neppure allude, tanto è lontano dal suo consolidato – e un po’ angusto – modo di guardare la fitta rete di problemi di cui è costituita la contemporaneità: c’è l’economia, così come fino a oggi è stata pensata, e il resto viene dopo, anzi, neppure ha senso parlarne. Anche se ciò comporta non prendere sul serio chi si ha di fronte, cioè la neosegretaria del PD, con le sue idee e le sue priorità. Che con i dati della crescita dovranno necessariamente fare i conti, ma non per “coordinarsi”, bensì per aggirarli con un nuovo modello di sviluppo che ne dimostri l’obsolescenza.

O un autentico cambiamento non avrà mai neppure inizio.

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E intanto il PD continua a correre ottusamente verso destra

Premesso che sono tra coloro che auspicavano lo scioglimento del PD quale unica possibilità per un rinnovamento della sinistra (e continuo a farlo), non credo si possa ignorare che questo, almeno per ora, non avverrà e che, invece, a dirigere quel partito – che sfortunatamente condiziona in molti modi la politica nazionale orientata a sinistra – verrà con ogni probabilità eletto Stefano Bonaccini, vale a dire un politico dal quale possiamo attenderci ancora una volta discontinuità solo di facciata.

Se ce ne fosse stato bisogno, il discorso che Bonaccini ha pronunciato domenica 29 gennaio a Milano ha pienamente confermato questa valutazione. Mostrando una notevole sicurezza nella propria vittoria alle prossime primarie, il candidato segretario ha ribadito la sua intenzione di mantenere una forte continuità con il progetto nato nel 2007 e fino a oggi sostanzialmente fallimentare: quello di un partito che gestisca l’esistente, senza porre in discussione in alcun modo il sistema economico in cui viviamo, il modello di sviluppo che lo sostiene, gli stili di vita necessari a farlo sopravvivere e le sperequazioni – spaventose e crescenti – che inevitabilmente ne conseguono.

Accuse pregiudiziali e ingiustificate? No, solo ponderate valutazioni delle sue stesse parole.

Siamo il partito democratico. La sinistra progressista e riformista che mette al centro il lavoro e le imprese serie, che creano occupazione di qualità. Senza impresa, non c’è lavoro.

Affermazioni di questo tipo vengono da lontano, da concetti risalenti all’Ottocento e rimasti validi fino agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, ma che sono da tempo pesantemente desueti. Oggi, dopo sessant’anni di studi sui limiti del pianeta e con la progressiva crescita produttiva di quello che un tempo era “terzo mondo”, il lavoro è ormai una “risorsa scarsa”; un partito, specie di sinistra, che voglia porlo “al centro”, deve farlo nell’ottica della sua redistribuzione, non certo in quella della “creazione”.

Ma è proprio su questo punto che Bonaccini mostra la propria inadeguatezza ai tempi: il suo discorso prosegue infatti con un’affermazione del tutto fuori dal contesto contemporaneo, oltre che palesemente falsa:

E senza crescita non c’è nulla da redistribuire, altro che decrescita felice

Anche lasciando da parte la grossolana, facile e frusta retorica sulla “infelicità della decrescita” (infelice, al massimo, era lo slogan), senza crescita è infatti ben possibile, pur che lo si voglia, redistribuire la ricchezza che c’è e che è oggi altamente sperequata, così come il lavoro stesso, anch’esso assegnato in modo iniquo: quanti ritengono di esserne oberati, ma non ne lasciano parte a chi non ne ha? Quanti lo hanno assicurato, a fronte dei molti che devono sbattersi più per trovarne degli spezzoni che per onorarli?

Senza crescita, dunque, è possibile – e doveroso, per un partito di sinistra – redistribuire la ricchezza e il lavoro che ci sono; puntare sulla crescita come unica possibilità per redistribuire significa essere fermi almeno agli anni Sessanta, non aver capito che il mondo è cambiato, non avere intenzione di intaccare i privilegi esistenti. E, come se non bastasse, mettere al centro non “il lavoro”, bensì “la crescita” spalanca la strada verso un nuovo epocale fallimento, perché la crescita da un lato non ci può più essere – almeno non in misura e durata sufficienti a permettere significative redistribuzioni ai meno avvantaggiati – e dall’altro, per quel poco che può essere cercata, continuerà a far danni all’ambiente e ad aumentare le diseguaglianze.

Se per quanto riguarda i danni all’ambiente è sufficiente leggere qualcosa di quella vastissima letteratura scientifica uscita nell’ultimo mezzo secolo, invece di dare scioccamente di “gretini” agli ambientalisti, sull’aumento delle diseguaglianze sono le parole stesse di Bonaccini a essere rivelatrici: cos’è infatti quell'”occupazione di qualità” di cui sembra interessarsi primariamente, se non il contraltare di quella

forza lavoro (…) per far funzionare le nostre imprese e i nostri allevamenti, i ristoranti e i servizi, l’accudimento dei nostri anziani e delle persone non autosufficienti

che Bonaccini vorrebbe garantire attraverso «flussi regolari e ben programmati di ingresso», ovvero assegnandola agli immigrati? Non redistribuire il lavoro, dunque, ma assegnare ai paria stranieri quello talmente di bassa qualità da meritare il titolo di “forza lavoro”, per farne la base per la “creazione” di nuovo lavoro “di qualità” per gli italiani: un razzismo in guanti bianchi sulla bocca del segretario in pectore di quello che vorrebbe essere il partito maggioritario della sinistra.

Anche se potesse funzionare, pertanto, la ricetta di Bonaccini potrebbe solo fare altri danni sociali e ambientali, né avrebbe alcunché di “sinistra”, visto che conserverebbe i privilegi esistenti, rafforzando sia la distinzione tra una “classe signorile di massa” (cfr. Luca Ricolfi, La società signorile di massa, 2019), composta da italiani, e una “servitù della gleba”, composta da immigrati, sia l’espropriazione definitiva di beni ambientali da parte delle generazioni oggi attive a danno di quelle future.

Ma un tale progetto politico, comunque, non può neppure funzionare, perché la crescita è una realtà del passato: la transizione ecologica, di cui tanto si parla e che almeno a parole tutti i Paesi del mondo hanno messo in cantiere, sta lì a ricordarcelo, e deve essere accompagnata da una seconda “transizione”: quella culturale di massa, che impronta tanto il modello di sviluppo economico, quanto gli stili di vita dei cittadini, oggi troppo dissipativi, legati all’idea di un’abbondanza che non c’è più. Ma, di nuovo, per Bonaccini

la transizione ecologica (…) non può prescindere dalla salvaguardia dei posti di lavoro e dal principio di realtà

che significa non toccare né quella cultura arcaica, né i privilegi di chi un lavoro ce l’ha, magari anche troppo impegnativo e troppo ben retribuito, a discapito di quel che ci dice veramente il principio di realtà: che il pianeta non solo sta andando alla catastrofe ambientale, ma non ha neppure risorse sufficienti da permettere a tutti di conservare il tenore di vita che in Italia, così come in tutto l’Occidente, si è tenuto negli ultimi cinquant’anni – come ben c’insegnano i dati annuali dell’Overshoot Day.

Tutto questo Bonaccini mostra di non saperlo, o comunque di non volerne tener conto. E che un personaggio così possa diventare il segretario di quello che, volenti o nolenti, vuol essere – e, di fatto, tutt’ora è – il principale referente politico dei cittadini di sinistra, non può che interessarci.

E preoccuparci.

Molto.

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