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La scomparsa della neve, metafora dei cambiamenti che ci aspettano

Esempio emblematico tanto di ciò che significa il cambiamento climatico, quanto delle resistenze ad affrontarlo, la scomparsa invernale della neve in montagna è ormai da tempo davanti agli occhi di tutti e comincia a essere finalmente riconosciuta anche da organismi economici istituzionali (recentissimo un report della Banca d’Italia, che sottolinea l’insostenibilità di investimenti in campo sciistico). Ciononostante – forse a causa di un’informazione reticente perché tesa a proteggere le componenti economiche implicate, forse perché vivendo in città è difficile comprendere cosa accade in montagna – il fenomeno non riceve l’attenzione che meriterebbe da parte dei cittadini, i quali o lo considerano marginale per la politica e la programmazione economica, oppure semplicemente continuano a coltivare lo sci alpinistico come se niente stesse accadendo.

In realtà, la questione è molto complessa e incide pesantemente sulla vita economica non solo delle “terre alte”, ma anche del resto del Paese, come ben emerge dalla lettura di un libro scritto da Maurizio Dematteis e Michele Nardelli, appena uscito per DeriveApprodi, il cui titolo è molto esplicito: Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa. Si tratta di un articolato reportage che inizia dalle Alpi Occidentali, attraversa l’intero arco alpino e scende lungo l’Appennino, concludendosi nelle Madonie: trenta comprensori sciistici, tutti più o meno in crisi da tempo, dei quali si raccontano parabole, contraddizioni, scandali e tentativi – alcuni riusciti, altri paradossalmente falliti – di fuggire dalla monocoltura dello sci di massa, inventando modi diversi di far funzionare l’economia della montagna in accordo con l’ecosistema. Per realizzarlo gli autori hanno viaggiato attraverso la penisola e dialogato con chi, abitando i luoghi, ne ha vissuti ascesa e declino, talvolta contribuendo in passato a costruirne involontariamente l’attuale rovina, spesso comunque rendendosi conto da tempo dell’urgenza di un cambiamento. Perché se non v’è dubbio che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, una montagna dedita allo svago e al relax della città grazie a piste di scivolamento, locali notturni e centri benessere poteva sembrare ai più così economicamente appetibile da sacrificare l’integrità dell’ambiente e le tradizionali, faticose e meno redditizie attività delle terre alte (silvicoltura, allevamento, lavorazione di latti e carni, artigianato, ecc.), non meno certo è che ormai da un quarto di secolo quell’ideale mostra sempre più i propri limiti e la necessità di mettere in discussione sia il modello economico, sia gli stili di vita dissipativi che ne erano il presupposto.

La crescente diminuzione della neve sotto i duemila metri, manifestatasi negli anni Novanta, è infatti stata a lungo tamponata dall’introduzione dell’innevamento artificiale, che ha innalzato i costi ambientali (gli invasi in quota aumentano i rischi di frane e di valanghe, richiedono strade e cemento laddove prima c’era solo natura, sottraggono acqua alle valli) e reso insostenibili quelli economici (la quasi totalità degli impianti di risalita sono in perdita da decenni, sostenuti da ingenti interventi pubblici a beneficio di un indotto che comunque non ha più i ricavi di una volta); negli ultimi anni, però, neppure l’aiuto degli sparaneve è stato sufficiente: da Pragelato a Foppolo, da Sappada al Terminillo, fino alle incredibili stazioni sciistiche di Campitello Matese, dell’Aspromonte e dell’Etna, la riduzione dei giorni di apertura e, perciò, degli incassi ha portato all’impossibilità di far fronte alle spese di manutenzione e alla chiusura prima degli impianti, poi delle attività alberghiere che di essi si nutrivano. E persino là dove i numeri sono sempre stati elevati – valga per tutti il caso del Dolomiti Supersky, il gigantesco consorzio che riunisce 138 società di gestione, 480 impianti di risalita e 1200 chilometri di pista – ci si comincia a interrogare su quale possa essere il futuro, a fronte dello zero termico che ogni anno si alza di centinaia di metri.

È così che inizia il tentativo di pensare diversamente la montagna, da un lato recuperando le vocazioni originarie, dall’altro incentivando nuove forme di sport e di svago, meno impattanti sull’ambiente e compatibili con la diminuzione della neve. Sul primo versante si rilanciano le eccellenze alimentari, spesso quasi interamente spazzate via dalla “modernizzazione” portata in quota dai turisti, ma anche l’artigianato locale, il cui recupero in alcuni casi si è trasformato in una cultura da condividere con i turisti (esemplare l’autocostruzione degli sci in legno a Prali, che si accompagna a una riscoperta dell’antica cultura locale). Sul secondo si incentiva l’estensione in inverno di attività originariamente estive, come il cicloturismo, reso più appetibile dalle bici elettriche, il mountain biking e il downhill, ma anche le escursioni a piedi o con le ciaspole. Un cambio di destinazione che richiede una radicale revisione dell’idea di montagna sia del turista, sia di chi in quei luoghi vive e lavora, e che sorprendentemente sembra realizzarsi più rapidamente nel primo che nel secondo: se infatti non mancano, dalla Val di Funes a Pietraroja, esempi di realtà ove i numeri hanno premiato il coraggio di puntare decisamente verso un nuovo modello, sono viceversa frequenti i casi, anche eclatanti, di resistenze locali al cambiamento. Valga per tutti quello del Passo Rolle, ove il tentativo di alcuni importanti imprenditori locali di riportarlo alla sua naturalità selvaggia, smontandone definitivamente gli impianti abbandonati da tempo, è stato ostacolato da operatori del settore sciistico, che si sono poi portati dietro la popolazione, a dispetto del quasi certo successo dell’operazione.

Visto il ripetersi un po’ ovunque di queste resistenze, merita chiedersene il perché, magari andando oltre la sterile spiegazione psicologica della “resistenza al cambiamento”. E la risposta che emerge dalla ricerca svolta nel libro sta nella micidiale alleanza tra lobby economiche, malcostume politico e malavita organizzata. Le prime, in particolare quelle del mattone e della gestione degli impianti, vedono messe a rischio le loro rendite di posizione, storicamente legate all’attrazione del denaro pubblico e perciò alla sinergia con la politica; questa, per conservarsi l’appoggio delle lobby, spesso si guarda bene dal sostenere proposte che siano loro sgradite e con ciò blandisce le paure delle popolazioni di fronte a cambi epocali, continuando a finanziare con flussi di denaro pubblico il vecchio modello in spregio della sua crescente insostenibilità e attirando con ciò la criminalità organizzata, non di rado trovata implicata nella gestione di quel denaro o nelle speculazioni legate agli appalti edilizi. Il perverso risultato è che in Italia gli investimenti pubblici sul sempre più raro “oro bianco” crescono di anno in anno (e avranno un ulteriore picco con le Olimpiadi del 2026, alle quali il libro dedica un capitolo a sé stante), mentre i ricavi per le comunità delle terre alte sono in costante diminuzione. Questo perché, come dice un intervistato a proposito del comprensorio Fassa-Fiemme, ma che può valere per tutte le terre alte,

in troppi casi, nonostante i cambiamenti climatici in atto, una certa classe di imprenditori si è impadronita della montagna. Con il consenso della grande maggioranza di chi in montagna ci vive.

Una metafora concreta di quel che sta accadendo ovunque, sebbene spesso in modo più subdolo e meno evidente: tutti noi, ogni giorno, siamo infatti prigionieri di un sistema dissipativo, che fa dell’ignoranza del limite – ambientale, economico, culturale, umano – il suo caposaldo, e tuttavia – condizionati dalla connivenza di una politica debole e priva di idee, sospinti da un’informazione schiava dello status quo economico – siamo noi stessi a richiedere la conservazione degli stili di vita che formano le sbarre della nostra gabbia. Riflettere su metafore concrete qual è quella dello sci di massa può servire a illuminarci.

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E intanto il PD continua a correre ottusamente verso destra

Premesso che sono tra coloro che auspicavano lo scioglimento del PD quale unica possibilità per un rinnovamento della sinistra (e continuo a farlo), non credo si possa ignorare che questo, almeno per ora, non avverrà e che, invece, a dirigere quel partito – che sfortunatamente condiziona in molti modi la politica nazionale orientata a sinistra – verrà con ogni probabilità eletto Stefano Bonaccini, vale a dire un politico dal quale possiamo attenderci ancora una volta discontinuità solo di facciata.

Se ce ne fosse stato bisogno, il discorso che Bonaccini ha pronunciato domenica 29 gennaio a Milano ha pienamente confermato questa valutazione. Mostrando una notevole sicurezza nella propria vittoria alle prossime primarie, il candidato segretario ha ribadito la sua intenzione di mantenere una forte continuità con il progetto nato nel 2007 e fino a oggi sostanzialmente fallimentare: quello di un partito che gestisca l’esistente, senza porre in discussione in alcun modo il sistema economico in cui viviamo, il modello di sviluppo che lo sostiene, gli stili di vita necessari a farlo sopravvivere e le sperequazioni – spaventose e crescenti – che inevitabilmente ne conseguono.

Accuse pregiudiziali e ingiustificate? No, solo ponderate valutazioni delle sue stesse parole.

Siamo il partito democratico. La sinistra progressista e riformista che mette al centro il lavoro e le imprese serie, che creano occupazione di qualità. Senza impresa, non c’è lavoro.

Affermazioni di questo tipo vengono da lontano, da concetti risalenti all’Ottocento e rimasti validi fino agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, ma che sono da tempo pesantemente desueti. Oggi, dopo sessant’anni di studi sui limiti del pianeta e con la progressiva crescita produttiva di quello che un tempo era “terzo mondo”, il lavoro è ormai una “risorsa scarsa”; un partito, specie di sinistra, che voglia porlo “al centro”, deve farlo nell’ottica della sua redistribuzione, non certo in quella della “creazione”.

Ma è proprio su questo punto che Bonaccini mostra la propria inadeguatezza ai tempi: il suo discorso prosegue infatti con un’affermazione del tutto fuori dal contesto contemporaneo, oltre che palesemente falsa:

E senza crescita non c’è nulla da redistribuire, altro che decrescita felice

Anche lasciando da parte la grossolana, facile e frusta retorica sulla “infelicità della decrescita” (infelice, al massimo, era lo slogan), senza crescita è infatti ben possibile, pur che lo si voglia, redistribuire la ricchezza che c’è e che è oggi altamente sperequata, così come il lavoro stesso, anch’esso assegnato in modo iniquo: quanti ritengono di esserne oberati, ma non ne lasciano parte a chi non ne ha? Quanti lo hanno assicurato, a fronte dei molti che devono sbattersi più per trovarne degli spezzoni che per onorarli?

Senza crescita, dunque, è possibile – e doveroso, per un partito di sinistra – redistribuire la ricchezza e il lavoro che ci sono; puntare sulla crescita come unica possibilità per redistribuire significa essere fermi almeno agli anni Sessanta, non aver capito che il mondo è cambiato, non avere intenzione di intaccare i privilegi esistenti. E, come se non bastasse, mettere al centro non “il lavoro”, bensì “la crescita” spalanca la strada verso un nuovo epocale fallimento, perché la crescita da un lato non ci può più essere – almeno non in misura e durata sufficienti a permettere significative redistribuzioni ai meno avvantaggiati – e dall’altro, per quel poco che può essere cercata, continuerà a far danni all’ambiente e ad aumentare le diseguaglianze.

Se per quanto riguarda i danni all’ambiente è sufficiente leggere qualcosa di quella vastissima letteratura scientifica uscita nell’ultimo mezzo secolo, invece di dare scioccamente di “gretini” agli ambientalisti, sull’aumento delle diseguaglianze sono le parole stesse di Bonaccini a essere rivelatrici: cos’è infatti quell'”occupazione di qualità” di cui sembra interessarsi primariamente, se non il contraltare di quella

forza lavoro (…) per far funzionare le nostre imprese e i nostri allevamenti, i ristoranti e i servizi, l’accudimento dei nostri anziani e delle persone non autosufficienti

che Bonaccini vorrebbe garantire attraverso «flussi regolari e ben programmati di ingresso», ovvero assegnandola agli immigrati? Non redistribuire il lavoro, dunque, ma assegnare ai paria stranieri quello talmente di bassa qualità da meritare il titolo di “forza lavoro”, per farne la base per la “creazione” di nuovo lavoro “di qualità” per gli italiani: un razzismo in guanti bianchi sulla bocca del segretario in pectore di quello che vorrebbe essere il partito maggioritario della sinistra.

Anche se potesse funzionare, pertanto, la ricetta di Bonaccini potrebbe solo fare altri danni sociali e ambientali, né avrebbe alcunché di “sinistra”, visto che conserverebbe i privilegi esistenti, rafforzando sia la distinzione tra una “classe signorile di massa” (cfr. Luca Ricolfi, La società signorile di massa, 2019), composta da italiani, e una “servitù della gleba”, composta da immigrati, sia l’espropriazione definitiva di beni ambientali da parte delle generazioni oggi attive a danno di quelle future.

Ma un tale progetto politico, comunque, non può neppure funzionare, perché la crescita è una realtà del passato: la transizione ecologica, di cui tanto si parla e che almeno a parole tutti i Paesi del mondo hanno messo in cantiere, sta lì a ricordarcelo, e deve essere accompagnata da una seconda “transizione”: quella culturale di massa, che impronta tanto il modello di sviluppo economico, quanto gli stili di vita dei cittadini, oggi troppo dissipativi, legati all’idea di un’abbondanza che non c’è più. Ma, di nuovo, per Bonaccini

la transizione ecologica (…) non può prescindere dalla salvaguardia dei posti di lavoro e dal principio di realtà

che significa non toccare né quella cultura arcaica, né i privilegi di chi un lavoro ce l’ha, magari anche troppo impegnativo e troppo ben retribuito, a discapito di quel che ci dice veramente il principio di realtà: che il pianeta non solo sta andando alla catastrofe ambientale, ma non ha neppure risorse sufficienti da permettere a tutti di conservare il tenore di vita che in Italia, così come in tutto l’Occidente, si è tenuto negli ultimi cinquant’anni – come ben c’insegnano i dati annuali dell’Overshoot Day.

Tutto questo Bonaccini mostra di non saperlo, o comunque di non volerne tener conto. E che un personaggio così possa diventare il segretario di quello che, volenti o nolenti, vuol essere – e, di fatto, tutt’ora è – il principale referente politico dei cittadini di sinistra, non può che interessarci.

E preoccuparci.

Molto.

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Quando un influencer fa politica, la politica è già di destra

Il Primo Maggio il rapper Fedez, dal palco del rituale concerto della Festa dei Lavoratori, si è lanciato in un (tutt’altro che inusuale, molti l’avevano fatto in passato) intervento “politico”, attaccando la Lega per i boicottaggi alla legge contro omofobia e transfobia, ma anche lamentando una presunta censura che sarebbe stata tentata ai suoi danni dalla Rai, che trasmetteva il concerto, in particolare dalla vicedirettrice di rete, in questo caso però in quota PD, partito che ha presentato il decreto legge in questione. Ne sono seguite ricche e variegate polemiche politiche, nonché il solito pugnar di posizioni avverse sui social network, piaccia o non piaccia ormai agorà del dibattito politico tra cittadini.

In tale agorà è parso emergere un sostanziale sostegno al rapper, offertogli anche da autorevoli rappresentanti della sinistra – due su tutti, l’ex segretario PD Zingaretti e l’importante rappresentate del medesimo partito Gianni Cuperlo. In alcuni casi quel sostegno arrivava esplicitamente “senza se e senza ma”, in altri era perfino arricchito da considerazioni tipo “fa quel che i partiti di sinistra non hanno il coraggio di fare”. In breve: il “ribelle” Fedez è sostanzialmente divenuto emblema e modello dell’opposizione (anche alla lottizzazione della RAI) e del cambiamento, una sorta di eroe della sinistra. Solo pochi sono usciti dal coro, alludendo (inutilmente) al “mestiere” che il rapper svolge assieme alla moglie – l’influencer – magari additando il cappellino della Nike indossato nel video che denunciava il tentativo di censura.

A me questa vicenda pare emblematica della condizione in cui versa la (in)cultura politica non solo dei partiti di sinistra, ma anche e soprattutto dei cittadini che in qualche modo si sentono da essi traditi. Una vicenda nella quale i più vedono solo l’apparenza e si lasciano sfuggire la sostanza, restandone in tal modo del tutto gabbati.

In primo luogo, è opportuno sottolineare che, sebbene la legge contro l’omotransfobia sia stata proposta e sostenuta da partiti di sinistra, la difesa dei diritti e dell’integrità delle minoranze non è un valore specifico ed esclusivo della sinistra, bensì è parte anche di culture politiche centriste e liberali; insomma è un principio ampiamente condiviso, compatibile anche con strutture sociali largamente divise in classi e che prevedano ampie sperequazioni, economiche e di opportunità. Solo determinate culture politiche particolarmente conservatrici riguardo ai costumi possono derogare un tal principio di valore, ma queste non sono “la destra”, bensì solo una sua parte estrema.

Detto questo, veniamo alla questione centrale. Fedez non è semplicemente un artista salito sul palco del concertone per cantare: è il socio della cosiddetta ditta “Ferragnez”, che – ben pagata – svolge il ruolo di influencer, vale a dire promuove questo o quel prodotto di mercato di vario genere, costituendo in tal modo un elemento portante di quel “sistema” contro il quale il rapper afferma poi di volersi ribellare. In altre parole, Fedez e la sua compagna sono il “braccio armato” delle multinazionali e delle banche che vi investono, di Bezos e di Gates, di tutti i “grandi vecchi” contro i quali chi si ritiene di sinistra spesso si scaglia, i quali senza personaggi come i Ferragnez, amplificatori del sistema pubblicitario che spinge al consumo, rimarrebbero senz’aria e senza soldi.

Il “ribelle” Fedez, ne fosse o meno consapevole (questo non possiamo saperlo), con la sua tirata del Primo Maggio ha alzato il rating della ditta Ferragnez, alzando conseguentemente anche il prezzo degli emolumenti che quella percepisce grazie al suo contribuire al funzionamento del sistema dei consumi, indispensabile base di quell’economia neoliberista che produce diseguaglianze, cataclismi ecologici, flussi migratori, nepotismi e corruzioni. Novello Principe di Salina, il rapper si scagliava contro le discriminazioni omotransfobiche per rafforzare le sperequazioni economiche, denunciava la censura affinché aumentasse la propria egemonia. Sacrificava, insomma, elementi non necessari al “sistema” per rafforzarne quelli vitali. Con tale e tanta sicurezza di rimanere impunito da indossare lo strumento di lavoro – il cappellino della Nike – fin nel video di denuncia. E faceva bene i propri conti, perché i più non se ne sono accorti. Peggio, alcuni hanno persino attaccato chi, magari con ironia, additava la truffa.

A tutto questo si potrebbero aggiungere altri non trascurabili dettagli, per esempio che, come emerso in seguito, la presunta censura era stata decisamente manipolata (l’audio della conversazione era tagliato e non rendeva conto né di chi, né di come gli fossero state dette le cose che riteneva censorie), che la diffusione urbi et orbi di una telefonata privata è una violazione di quella privacy di cui tanto ci si lamenta quando è la propria, ma non quando è di qualcun altro, e anche che alla legge contro l’omotransfobia non si oppone solo la Lega, ma anche diversi movimenti femministi (giusto per ricordare che niente è mai scontato). Ma sarebbe superfluo.

Basta e avanza infatti che i più si sentano di scrivere “io sto con Fedez” o, peggio, “Fedez ha avuto il coraggio che manca alla sinistra”: chi lo fa non ha capito come funziona il mondo in cui viviamo, chi siano coloro che dobbiamo combattere per cambiarlo, quali siano le priorità per il cambiamento. Che a non capirlo siano così tanti e così convinti significa solo una cosa: che in una società più giusta e meno sperequata non ci vivremo mai. E non solo per colpa dei tanto vituperati partiti, bensì per responsabilità dei cittadini.

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