Archivio mensile:aprile 2020

La pandemia e la rivolta dei “critici integrati”

Nel suo libro Realismo capitalista, Mark Fisher osservava come la cultura del neoliberismo non preveda più, come le forme assunte in passato dal potere,

l’in­corporazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loro precorporazione: la programmazione e la model­lazione preventiva, da parte della cultura capitali­sta, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze.

Grazie a quest’opera preventiva, la cultura neoliberista da un lato spegne alla fonte ogni reazione critica, in quanto

un cittadino assoggettato cerca le soluzioni non nei processi politici, ma nei prodotti,

dall’altro rende di fatto alleati del potere economico anche la quasi totalità di coloro che se ne ritengono avversari:

Prendiamo per esempio quelle aree culturali «al­ternative» o «indipendenti» che replicano senza sosta i vecchi gesti di ribellione e contestazione come se fosse la prima volta: «alternativo» e «indipendente» non denotano qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili inter­ni al mainstream – o meglio sono, a questo punto, gli stili dominanti del mainstream.

Questa diagnosi di Fisher trova una clamorosa conferma in questo periodo di pandemia da coronavirus. Di fronte al cambiamento di stili di vita imposto dalle precauzioni sanitarie,  infatti, si è assistito a un gran fiorire di proteste da parte di sedicenti “critici del potere”, impegnati a denunciare, nei modi più diversi e fantasiosi, presunte congiure: il virus sarebbe stato prima creato in laboratorio, poi diffuso per produrre il caos e imporre stati di polizia (nonostante l’intera comunità scientifica sia d’accordo che ha origine naturale); un “clima di paura” verrebbe fomentato ad arte perché il virus sarebbe innocuo (nonostante i morti e il fatto che non ci sia nessun “clima di paura”); assisteremmo alla soppressione di essenziali “libertà” e “diritti democratici” (a dispetto del fatto che le sole cose vietate siano gli incontri ravvicinati); le misure di “controllo” verrebbero messe in atto per poi non essere più tolte (quasi che non fossimo già tutti “controllati”, senza che nessuno prima protestasse più di tanto, e che il problema fosse il controllo e non piuttosto i motivi per i quali lo si effettua). E si potrebbe proseguire. Questa pletora di denuncianti si rifanno ora al foucaultiano “sorvegliare e punire”, ora alla tradizione libertaria, ora al semplice qualunquismo antigovernativo che va tanto di moda in Italia, ora persino ai partigiani e alla loro lotta per la libertà (sì, s’è dovuto sentire anche questo…), ma con un solo obiettivo comune in mente: tornare, ora e subito, alla vita di prima.

Ma, viene spontaneo chiedere, “prima” le cose andavano forse bene? Non c’erano già il potere e i suoi controlli, gli abusi delle forze dell’ordine e i limiti di rappresentanza politica che portavano metà degli elettori a non votare? Non c’erano i semafori, i sensi unici, le telecamere agli angoli delle strade e le pattuglie di polizia? Si poteva uscire nudi, guidare ubriachi, farsi le canne, fare l’amore sui gradini delle chiese? E soprattutto: non eravamo costretti a rispettare orari e ruoli imposti da altri, accettati solo per non essere esclusi e morire di fame? Non eravamo obbligati a correre, lavorare, consumare, cercando di occupare, a danno di altri, un “posto privilegiato”? Non eravamo, “prima”, in un mondo di spettacolari e spaventose sperequazioni, abitato da gente che nuotava nell’oro e gente che nuotava invece per cercare di arrivare, clandestinamente, in una terra dove non morire di fame e malattie? Un mondo che stavamo spremendo, utilizzandone le risorse rinnovabili annue in meno di sei mesi, che stava (e sta) collassando climaticamente, minato dalla rapida scomparsa di fauna, flora, terre abitabili?

E allora: perché oggi tutta questa fretta di far tornare tutto come prima? E, soprattutto, chi ha questa fretta?

Alla domanda sul perché della fretta qualcuno potrebbe forse rispondere: “perché altrimenti il sistema economico crollerà e a soffrirne saranno proprio le categorie più deboli”. Sarebbe però una risposta troppo facile: perché è proprio quel sistema economico a produrre i deboli, a imporre i vecchi limiti alla libertà, ai diritti, alla scelta di stili di vita diversi, e anche a danneggiare l’ambiente e la natura. Dunque perché tornarci? Meglio trovare un altro modo per salvaguardare i deboli, magari indebolendo i forti.

La domanda sul chi abbia fretta, poi, mi pare non se la ponga nessuno, almeno non a livello pubblico. E le ragioni sono evidenti: perché chi abbia un ruolo pubblico – giornalisti, opinionisti, intellettuali da rotocalco, perfino bloggersocial media influencer – non ha nessun interesse a lasciare che il mondo “inciampi” nel virus e cambi direzione. Un mondo che rallenti, che sostituisca l’opulenza con la calma, il consumo con le relazioni umane, lo sport su Sky con le partitelle con gli amici, gli apericena con le veglie nelle case, non è il loro mondo. Non lo è perché non corrisponde alle loro abitudini, ma soprattutto perché in esso verrebbero meno i loro supporti materiali, tutti basati sul consumo: la pubblicità, i finanziamenti (pubblici o di ricchi privati), le speculazioni, la stessa politica, oggi basata sulla cieca delega e la mancata partecipazione attiva dei cittadini, frutto dell’assenza di tempo ed energie.

Ecco allora che gran parte del mondo dei media e degli opinion maker, soprattutto di quelli abituati a interpretare il ruolo degli “antisistema”, riprende il vetusto schema dell'”opposizione al potere”, lo condisce di cospirazionismo (espediente che funziona sempre, radicato com’è nella cultura religiosa strisciante), di stratagemmi retorici e di dati manipolativamente selezionati ad arte (esemplare Agamben che cita il dato sui decessi nazionali, identico all’anno scorso, e non quello sui decessi nei focolai isolati dal blocco, più che triplicato), e il gioco (sporco) è fatto: si conservano abitudini e ruoli, ma soprattutto si rema verso quella normalità della quale, al tempo, si era araldi della contestazione e che si rivuole indietro tal quale, proprio per tornare a essere araldi, beneamati dai propri adepti e ben pasciuti dal sistema stesso. Un sistema che – come acutamente già osservava Fisher – vive anche grazie alla presenza di “alternative premodellate”, che ne critichino le parti non vitali, salvaguardandolo in tal modo dagli attacchi a quelle vitali.

Vitali, per il sistema capitalista neoliberista, sono due sole cose: la produzione e il consumo, incessanti, sfrenati, senza respiro. Sono loro a produrre la tanto declamata crescita e la speculazione che essa permette. E il lock down per la profilassi della pandemia ha fermato giustappunto questi  due essenziali elementi del capitalismo neoliberista, come molti hanno capito: da Muhammad Yanus a Gaël Giraud, da Zlavoij Zizek ad Arundhati Roy. Certo, come ben rileva Paolo Pecere in un eccellente articolo di approfondimento, non basta il lock down a cambiare il sistema capitalistico; anzi, senza accortezze e strategie di uscita il futuro potrebbe ben essere peggiore del passato. Ma preoccuparsi oggi solo ed esclusivamente di un rapido ritorno al capitalismo neoliberista, senza mettere fin d’ora in preventivo il drastico cambiamento di un sistema drammaticamente ingiusto e che ha dato prova di spaventosa fragilità (sono bastati due mesi di blocco parziale per temere una recessione degna di quella seguita a una guerra mondiale durata sei anni…), è segno o di insipienza, o di interessata manipolazione.

Quale delle due ipotesi sia vera non è dato sapere, ma in entrambi i casi è bene tenersi alla larga da tutti i “critici integrati” e dalle loro retoriche teorie: servirebbero solo a farci tornare nel miserrimo stato in cui ci trovavamo prima.

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Il virus e i professionisti della paura… di cambiare

Nel mio ultimo intervento dicevo di trovare preoccupante che, di fronte a un fenomeno inedito e incognito quale il SARS-CoV-2, ci si affanni a difendere posizioni incertissime, trovare colpevoli e farsi coraggio, invece di prendere atto della realtà qual è e immaginare, progettare, magari anche sperimentare nuove forme di vita, compatibili con i limiti impostici dal virus.

Tra coloro che stanno perdendo l’opportunità di un possibile, radicale cambiamento che il virus, pur nella sua negatività, ci sta offrendo, spiccano ai miei occhi coloro che si lamentano di una presunta “cultura della paura” – per molti di loro creata ad arte dal “potere”, che cambia identità a seconda delle preferenze ideologiche del parlante – alla quale soggiacerebbe una cittadinanza di pavidi, disposti a “non vivere per paura di morire”.

Anche tralasciando l’uso ricorrente come supporto alle loro posizioni delle teorie della cospirazione (quanto di meno razionale e ragionevole esista di fronte a fenomeni complessi, oltre che prive di qualsivoglia credibilità epistemologica), quel che colpisce di chi sostiene queste posizioni è da un lato l’identificazione di ciò che chiama “vivere” con quel che faceva nel recente passato, quasi non potesse darsi una vita diversa da quella che era stata progettata, dall’altro l’indisponibilità a “sospenderlo” anche solo per un periodo determinato. Due aspetti che, sommati, individuano soggetti marcatamente conservatori, privi dello spirito necessario per accettare la sfida che il virus ci mette davanti – insomma, persone con una tremenda paura di cambiare.

Va detto che, per quel che posso vedere dal mio modesto (ma non angusto) punto d’osservazione, il clima di paura di cui questi signori parlano non lo vedo. Di fronte a un fenomeno naturale che mette a rischio la vita di molti – spero che, con le pile di bare che non trovano posto nei cimiteri, nessuno arrivi a negarlo – non c’è di fatto alcun panico, ma solo attenzione e precauzione. Non è infatti paura di morire, ma semplice precauzione, ciò che spinge a guardare i due lati della strada prima di attraversare, così come è la precauzione e non la paura che ci fa rispettare il semaforo e attendere, anche a costo di perdere il treno, se lungo la strada sfrecciano veicoli a gran velocità. Lo stesso accade oggi che si rispettano le misure di distanziamento sociale per limitare i danni del virus.

Di più: non è paura di morire, ma senso di responsabilità, quello che spinge molti giovani – il cui rischio di morte in caso di contrazione del virus è piuttosto basso – a rispettare rigorosamente le misure, come nel caso di una giovanissima coppia, figli di conoscenti, che – pur soffrendo a non vedersi fisicamente – si limitano a incontri virtuali per evitare ogni rischio ai genitori. Tra la paura e la precauzione, così come tra la pavidità e la responsabilità, c’è uno iato che, evidentemente, alcuni neppure conoscono – cosa che spiega perché la nostra società sia così malridotta.

Ma non solo nel nostro paese non c’è “paura di morire”: non è nemmeno vero che chi accetta responsabilmente e di buon grado le limitazioni stabilite dalle Istituzioni “rinunci a vivere”. Infatti – anche trascurando che le privazioni più drastiche dureranno solo un tempo limitato e che chiunque non sia un bambino viziato è in grado di fare rinunce pro tempore – per moltissimi cittadini quella che si viveva prima della pandemia era una pessima vita: non libera, costretta dentro i tempi di una società della produzione e del consumo; scandita da tempi inumani, perché dettati dalle macchine e dal mercato; stressante, perché priva di pause perfino nei momenti di svago, fatti di rumore e di consumo coatto; dalla quale restavano sistematicamente esclusi importanti momenti privati, perché incentrata sull’immagine pubblica. La sola vita possibile nella società dell’individuo proprietario e del consumismo edonista, nella quale ciascuno di noi è solo un’ingranaggio del sistema produttivo/dissipativo, quello stesso che ha rovinato l’ambiente contribuendo a produrre il virus e ha depauperato il sistema sanitario perché improduttivo.

Nella sua drammaticità, le misure imposte dalla presenza del virus hanno bloccato il sistema, liberando gli ingranaggi, che in tal modo sono potuti tornare – almeno temporaneamente – a vivere come uomini. E’ probabilmente per questo che gran parte delle persone che conosco stanno vivendo questo periodo di presunte privazioni non solo serenamente, ma addirittura con un certo piacere: c’è chi da tanto tempo lasciava indietro importanti questioni private e adesso può finalmente occuparsene; chi ha ripreso a leggere, attività accantonata per mancanza di tempo; chi può con gioia passare tutto il tempo con i figli o con il coniuge; chi si dedica con soddisfazione a care passioni improduttive; chi semplicemente si riposa, e ne aveva tanto bisogno. Perfino i più giovani paiono rivalutare la quiete, la lentezza e la prossimità: mai avevo vista tanta intesa tra i miei vicini e la figlia ventenne, così come mai tanta paziente serenità nei bambini degli altri miei vicini. Meno multitasking, più serenità. Per tutti.

Certo, c’è chi è fortemente e giustamente preoccupato per il proprio futuro economico: alcune attività (anche la mia, se è per questo) producono reddito solo se vengono svolte e non posseggono ammortizzatori sociali; altre rischiano di scomparire con la crisi economica che certo seguirà l’emergenza pandemica. Ma è questa una buona ragione per parlare di “non vita”? No, perché per molti quella che stiamo vivendo, pur con i suoi – perlopiù esigui – vincoli, è una vita migliore di quella precedente. E per questo, lungi dal pensare a come tornare alla perduta “normalità”, si dovrebbe tutti assieme ingegnarsi per capire come costruirsene una del tutto nuova, che conservi i tanti aspetti positivi di questa “vacanza casalinga”.

Solo chi nella precedente “normalità” fosse un privilegiato, oppure chi – e credo si tratti dei più – manchi affatto della libertà personale, interiore, che gli consenta di cambiar vita, può ritenere quello che sta passando adesso una “non vita”. A questi professionisti della paura di cambiare, che tanto stigmatizzano le paure altrui inconsapevoli di star osservando uno specchio che riflette le loro, posso solo augurare di svegliarsi presto dall’incubo, così da recuperare la libertà persa già prima della pandemia e la fiducia nella vita in tutte le sue mutevoli forme.

 

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Il virus, da un punto di vista filosofico

La filosofia nasce dal thauma, dall’inquieto stupore prodotto da qualcosa che mette in mora quanto normalmente dato per ovvio, obbligando a riflettere e a trovare un significato diverso alla realtà. Questo atteggiamento che si assume di fronte al turbamento è anzi proprio ciò che caratterizza la filosofia: c’è chi si spaventa, chi si deprime, chi cerca aiuto, chi prova a rimuovere, chi cerca spiegazioni ad hoc e chi, invece, s’interroga riflessivamente e, in tal modo filosofando, fa tesoro di una spiacevole esperienza inattesa.

Da oltre un mese siamo tutti di fronte a un thauma: il SARS-CoV-2, alias coronavirus, è un’inattesa e inedita minaccia per chiunque (anche se i più a rischio sono gli anziani e i debilitati), della quale non sappiamo quasi nulla tranne ciò che impariamo convivendoci – non ne conosciamo caratteristiche biologiche, effetti di lungo periodo, farmaci antagonisti e forme di contenimento – e per fronteggiare la quale non abbiamo potuto far altro che cambiare largamente i nostri modi di vivere per cercare di non infettarci. Va sottolineato che questa lacuna conoscitiva riguarda tutti, semplici cittadini ed esperti; questi ultimi, in effetti, ne sanno qualcosa in più, possono aggiornarsi con maggiore rapidità e sono in grado di utilizzare meglio le analogie con altri fenomeni simili, ma ciò non fa di loro dei “portatori di verità”, visto che questa, sul SARS-CoV-2, oggi ancora non c’è.

Panico da coronaUna situazione di questo genere è dunque il modello-tipo per mettere in pratica l’atteggiamento filosofico, quello che Gerd Achenbach – il filosofo che ha ideato la Consulenza Filosofica – chiama “capacità di saper vivere” (Lebenskönnerschaft): la sospensione di ogni conoscenza, presa di posizione, giudizio; il temporaneo accantonamento di ogni obiettivo, scopo da realizzare, desiderio da soddisfare; il tutto a pro dello studio e della comprensione del fenomeno, della costruzione di ipotesi riguardo a come conviverci, della progettazione di nuove forme di interazione sociale capaci di tener conto dei limiti imposti dal virus e dalle conseguenze economiche della pandemia.

Ebbene, osservando quel che sta avvenendo nell’ultimo mese, è facile riconoscere che pressoché nessuno ha assunto l’atteggiamento filosofico, neppure gli stessi filosofi. Si è infatti assistito – certamente nel nostro Paese, ma sembrerebbe anche altrove – a un compulsivo comportamento da “superesperti” da parte sia di chi era a vario titolo competente in materia –  medici, virologi, biologi, ecc. – sia di chi fino ad allora  s’era occupato di tutt’altro. Un po’ tutti si sono infatti affannati a:

  • prendere posizione per una qualche lettura del contagio;
  • difendere o attaccare una qualche misura di contenimento;
  • sostenere qualche tipo di ipotesi esplicativa relativa all’origine del virus, spesso sbizzarendosi in fantasiosissime teorie della cospirazione;
  • ingaggiare una caccia al colpevole della diffusione del contagio – il governo ça va sans dire inadeguato, gli untori che se ne vanno in giro a infettare, la sanità incapace di intervenire con efficienza, ecc.;
  • cercare altri “nemici” da incolpare in qualche modo – il “popolo di codardi” che rispetta misure inutili, il “popolo di incoscienti” che non le rispetta, i tedeschi che non ci concedono i prestiti necessari, il Potere che si approfitta dell’emergenza per imporre controlli autoritari, ecc.
  • esporre striscioni, cantare in coro dai balconi o via internet, fare appelli, sorta di preghiere laiche beneauguranti.

Tutte cose, quelle elencate, sostanzialmente inutili, vista l’ignoranza generale riguardo all’oggetto in discussione, se non solo a sfogare – perlopiù inconsapevolmente – l’ansia prodotta dalla minaccia incombente.

Ben pochi hanno invece dedicato il molto tempo messo a loro disposizione dalle misure contenitive al tentativo di comprendere meglio ciò che sta accadendo e, soprattutto, a immaginare come ricostruire – dopo il morbo e nei mutati scenari che esso ci può lasciare – una “nuova normalità”, fatta di forme di vita individuali, sociali ed economiche diverse da quelle precedenti.

E sì che le ragioni non mancavano: quanti di coloro che si lamentano di ciò che stanno vivendo, rimpiangendo la “normalità perduta”, si dichiaravano soddisfatti di essa quando vi erano immersi? Quanti di coloro che si sentono “incarcerati” dall’obbligo di rimanere a casa propria apprezzavano di essere, prima, derubati del proprio tempo? Quanti di coloro che temono (certo anche con alcune giuste ragioni) il tracollo economico che quasi certamente seguirà alla pandemia erano estimatori del sistema economico neoliberista che imperava? E allora, non sarebbe stata proprio questa l’occasione giusta per interrogarsi, dialogare (non si dica che non si può uscire, siamo o non siamo “sempre connessi”?), studiare e progettare un altro mondo possibile, visto che il precedente sta crollando?

Viceversa, vittime di una cultura emotivistica, si è per l’ennesima volta dato solo sfogo ad ansie e paure. E non tanto a quella di morire, che in ragione della sua unicità pure qualche legittimità l’avrebbe anche avuta (chi perde la vita non può sostituirla con niente di equivalente o superiore), ma soprattutto ad altre assai meno sensate: quella di dover cambiare aspirazioni, obiettivi e abitudini; quella di attraversare un periodo di minore benessere materiale; quella di ritrovarsi in un mondo diverso. Paure a cui si è ceduto ancor prima di domandarsi se, alla fin fine, ciò che le causava fosse necessariamente negativo e da temere.

In altre parole, quasi nessuno ha approfittato del proprio “tempo ritrovato” – dono del virus la cui immensa positività è perlopiù sfuggita – per porsi filosoficamente di fronte alla pandemia, cercando di usare categorie diverse da quella fin troppo ovvia della “sciagura” – valida certo per coloro che il virus non sono riusciti a evitarlo e per i loro cari, ma non per tutti gli altri.

C’è ancora tempo, proviamoci.

 

 

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