Archivio mensile:gennaio 2021

Crisi di Governo o crisi della politica?

Nell’attesa di conoscere quale sarà il destino dei cittadini italiani quanto a Governo che ne decida le sorti – immediate certamente, future probabilmente – si può dire che, qualunque esso sia, non c’è da stracciarsi le vesti, dal momento che uno veramente degno non lo abbiamo né davanti, né alle spalle. Non c’è infatti alcun dubbio che il Governo che ha appena lasciato la scena, checché ne dica il suo Presidente, fosse ben lungi da avere un coerente e lungimirante progetto politico, così come non non ce n’è riguardo all’inconsistenza di tutti i progetti messi in campo dalle più diverse forze politiche (non solo) dell’arco parlamentare.

E se anche si volesse più modestamente ripiegare su un Governo che, seppur privo di una prospettiva politica degna di questo nome, fosse almeno capace di “gestire l’esistente”, come si è soliti dire, ebbene, anche in quel caso si può riaffermare che l’uno vale l’altro, poiché se quello che se ne va ha commesso senz’altro un’infinità di sbagli nella gestione della pandemia, chi gli si oppone e potrebbe sostituirlo è responsabile delle regioni che hanno fatto la differenza, in peggio, nel pessimo risultato complessivo del nostro Paese: per esempio, se non avessimo la Lombardia – ove si sono verificati leggendari e surreali errori – non saremmo la nazione europea con il più alto numero di morti per abitante.

Dunque, qualsiasi cosa accada – un nuovo Governo più o meno fotocopia, uno di solidarietà nazionale, le elezioni con la probabile vittoria dei Partiti di destra – non saremo comunque messi bene. E non lo saremo perché nel nostro Paese la politica latita, sostituita tra i cittadini dalle polemiche e dallo scarico di responsabilità all’insegna del “piove, governo ladro”, e tra i loro rappresentanti dal personalismo e dall’opportunismo. Se così non fosse, infatti, l’attuale crisi di Governo non sarebbe scoppiata, o comunque avrebbe avuto ben altra recezione da parte dei cittadini.

Le ragioni della crisi non sono infatti politiche, bensì cratiche: chi l’ha fatta scoppiare aveva cioè di mira l’interesse personale per il potere (cratos) e non quello pubblico per la città (polis). Non voglio dire che non esistano differenze politiche tra le parti in gioco, anzi, credo che siano anche più marcate di quanto non appaia ai più; se però fossero state davvero centrali, questo era il momento più inopportuno per farle valere, visto che – tanto per fare uno solo dei tanti possibili esempi – i tracolli dello spread seguiti alla crisi sono costati all’Italia in termini di tassi d’interesse sul debito tre volte più di quanto costerebbe prendere prestiti meno vantaggiosi del MES, osteggiato dai Cinquestelle e invocato da Italia Viva.

No, le ragioni della crisi non sono politiche, ma cratiche: stanno cioè nell’urgenza di recuperare un potere che, nel perverso modo in cui la politica viene praticata oggi, passa quasi interamente dalla visibilità e dal gradimento dei singoli attori, dei cosiddetti leader. Su questo piano, un po’ a sorpresa e in conseguenza della pandemia, il parvenu della politica Giuseppe Conte aveva ormai oscurato in modo talmente netto Matteo Renzi (il quale, prendendo a modello Berlusconi, sul personalismo ha fin dai suoi esordi basato la carriera politica) che questi non aveva altra scelta: o un colpo di scena, o la scomparsa. E colpo di scena è stato, con una crisi di Governo per la quale siamo presi in giro da tutto il mondo, motivata da ragioni che non stanno in piedi, condotta come un incontro di scacchi e nella quale chi l’ha aperta si è comportato come sempre in precedenza (essendo fiorentino conosco le “partite” di Renzi fin da quando le giocava contro i propri mentori): confidando sulla minore sfacciataggine e sul maggior senso di responsabilità dei contendenti. “Non ci sarà alcun voto”, diceva fin dall’inizio, prendendo a ostaggi i cittadini e confidando che gli altri non avrebbero avuto il coraggio di andare al voto, sacrificandoli. Un gioco sporco, sul quale ha ancora una volta mostrato una superiorità rispetto agli avversari.

Tale superiorità non è però politica: è infatti solo astuzia strategica applicata alla conquista del potere personale, la stessa che può essere messa a frutto nelle carriere private, nelle speculazioni, nei giochi di ruolo, nelle guerre. Renzi l’ha applicata a una “partita” la cui posta era e resta il proprio potere: perderlo – come ha detto sfacciatamente in un’intervista – gli “frega il giusto”, visto che può sempre contare su una ben avviata carriera di affarista internazionale; ma un ultimo tentativo di conservarlo doveva pur farlo, e l’ha fatto.

Non è questo il luogo per una disamina critica sulla perniciosità di una politica ridotta a questo; mi limiterò a osservare che, anche quando non commisto a interessi personali, il leaderismo è la fine della democrazia rappresentativa e l’inizio del “principato democratico”, per riprendere un’espressione di quel grande filosofo della politica che è stato Danilo Zolo. Ciò spiega tutta la mia avversione a figure come quella di Renzi, Berlusconi, Salvini, che spostano l’aspetto formale della politica in una direzione che ne rinnega gli elementi più nobili. Vorrei invece andare oltre e sottolineare gli aspetti più propriamente politici che, sebbene contingentemente, questa crisi porta con sé, anche perché sono quelli che i difensori (più indiretti che diretti, peraltro) di chi l’ha sollevata mettono avanti, sebbene in modo di solito piuttosto incoerente.

Ho premesso che a me il governo appena caduto non piaceva, zeppo com’era di persone impreparate, privo di un’identità e di un progetto politico, con componenti anche piuttosto inquietanti (basti pensare alla parte antieuropeista del M5S, a quella con simpatie esplicitamente sovraniste, ai no-vax, ai tanti neoliberisti del PD). Tuttavia, è innegabile che in passato si fosse visto di peggio, tanto che c’è persino chi l’aveva definito “il governo più a sinistra della storia della Repubblica”. Era migliorabile? Senza dubbio! Ma il fatto che sia caduto sotto i colpi della sua componente più destrorsa – certo economicamente, probabilmente anche globalmente – ne rende la caduta molto, molto preoccupante.

Dal punto di vista economico, che le richieste avanzate da Italia Viva sul Recovery Plan siano una svolta a destra rispetto a quanto prima proposto dal Governo non sono certo il solo a dirlo: per esempio lo affermano anche, analizzando in dettaglio le due diverse bozze del piano, un’accademica e politologa come Nadia Urbinati e un economista come Mario Pianta. E indirettamente lo confermano le dichiarazioni entusiastiche con cui i vertici di Confindustria hanno accolto quello di IV. Del resto, ciò non può stupire: sono noti gli orientamenti neoliberisti di Renzi, da sempre teso a togliere “lacci e lacciuoli” alla difesa sia dei posti di lavoro, sia della sicurezza e previdenza sociale, sia – soprattutto – dell’ambiente (e qui basti pensare agli infiniti danni del suo celebre “Sblocca Italia”). E allora, pur non potendo valutare se il “piano” di IV sia o meno “più efficiente” di quello proposto dal decaduto Governo, personalmente non posso che preferire comunque quest’ultimo: l’efficienza, accoppiata a un progetto dannoso, è comunque solo un’aggravante.

Non bastasse la componente economica, a preoccupare c’è poi l’elemento etico, che rimanda alla storia di un partito nato attorno un gruppetto di persone sempre tese a rappresentare e difendere lobbies economiche, tanto da essere tutte implicate (in prima persona e persino con i loro congiunti) in affari quantomeno “opachi”, e guidato da un leader che non ha mai smesso di flirtare con un plurinquisito e adesso condannato in via definitiva qual è Denis Verdini, e che ora si scopre anche implicato in un conflitto d’interessi internazionale di proporzioni epiche: un Senatore della Repubblica, membro della commissione difesa, che fa parte da anni di un think tank impegnato a promuovere gli investimenti in Arabia Saudita, paese terzo, non alleato, non democratico e colpevole di un’infinità di violazioni dei diritti umani1! Conflitto d’interessi non perseguibile, va ricordato, anche grazie al fatto che lo stesso Renzi ha sempre operato per impedire che fosse adottata una legge su questo tema.

Negli stessi giorni in cui il responsabile della crisi di Governo si recava in Arabia a svolgere i suoi ben pagati compiti di promotore finanziario per la dinastia saudita, quattro parlamentari europei del PD viaggiavano verso la Bosnia per monitorare la situazione umanitaria nel campo profughi di Lipa. Quando – come dice Renzi – “è in gioco il futuro del nostro Paese”, io vorrei che al tavolo ci fossero i secondi e non il primo: perché non c’è futuro per un Paese che s’interessa al denaro, ma non a come e con chi lo si maneggia, né c’è futuro per un Paese che non antepone i valori umani a quelli economici.

1  Per approfondire l’argomento, sul quale è stata ad arte diffusa molte false informazioni, consiglio di recuperare gli articoli pubblicati nei giorni scorsi dal quotidiano indipendente Domani, per esempio questo.

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Non sta andando e non andrà tutto bene

Ci stiamo avvicinando a un anno di pandemia, ma i fatti stanno sempre più mostrando come il suo impatto superi anche le più pessimistiche previsioni. Dopo un anno, infatti, le conoscenze scientifiche sul virus continuano a essere molto limitate e, riguardo ai dettagli, non ancora sufficientemente condivise (aspetto essenziale per definirne l’affidabilità); sono ormai arrivati anche i vaccini, ma da un lato non è chiaro quale sarà il loro reale impatto su un virus che ha attecchito a livello mondiale, dall’altro i tempi di vaccinazione paiono lunghissimi (e non solo in Italia); le stesse strategie di contenimento profilattico, in larga misura indipendenti dalla conoscenza del virus (per il distanziamento interpersonale basta sapere che la trasmissione avviene per via aerea), continuano almeno in Europa a essere attuate in modo incerto e discontinuo, cosa che le rende di fatto insufficienti.

Il primo fenomeno era in realtà previsto: chi conosca un po’ la storia e la metodologia della scienza sa che le conoscenze hanno bisogno di tempo per consolidarsi. Il problema vero è piuttosto il fatto che la maggior parte dei cittadini non sia in grado né di comprenderlo, né tantomeno di accettarlo. Come ho spiegato altrove (si veda il mio La Caporetto del pensiero razionale. Una lettura pratico-filosofica della pandemia), gran parte delle colossali aberrazioni del dibattito pubblico sulla pandemia sono da addebitarsi proprio all’incapacità di accettare tanto che un fenomeno di questo genere possa essersi verificato, quanto che non si sia realmente in grado di fronteggiarlo e ridurne drasticamente la pericolosità. Un’incapacità che è sollecitata da motivazioni diverse (timori per la propria vita o per il futuro, concrete e immediate difficoltà di sopravvivenza, fragilità personali, povertà culturale che rende pesante cambiare anche pro tempore le modalità quotidiane di vivere, ecc.), ma che dopo un anno avrebbero dovuto essere state metabolizzate: il fatto che non sia avvenuto solleva enormi perplessità sulla cultura in cui viviamo e preoccupa fortemente.

Anche il secondo fenomeno era in buona parte prevedibile, perché la produzione e la distribuzione in emergenza di un tal numero di farmaci, oltretutto di nuova progettazione e dei quali (com’è del resto normale in questi casi) potremo sapere solo a posteriori la reale efficacia e le possibili controindicazioni, non poteva non essere complicata e farraginosa – e il nostro attuale sguardo sul fenomeno non tiene conto delle aree mondiali meno ricche e organizzate, che però in una pandemia hanno un effetto feedback anche su quelle più avvantaggiate. Anche in questo caso, però, il problema è aggravato dalle resistenze: è sorprendente il numero di cittadini italiani ed europei che temono non già che il vaccino non sia sufficientemente efficace, bensì che sia proprio dannoso, ed è sconfortante ascoltarne le motivazioni, resistenti anche alle argomentate e informate spiegazioni date loro da medici ed esperti, ma anche facilmente confermabili da una lettura non pregiudiziale.

Il terzo fenomeno, infine, è sì responsabilità diretta di chi ha l’onere e l’onore di dirigere le nostre società, i governi e gli amministratori, anche se indirettamente è anch’esso il prodotto dei cittadini: sono loro, infatti, ad aver espresso ed eletto quei governi e quegli amministratori; e sono sempre loro che protestano e boicottano ogni normativa che abbia un qualche costo, sia esso economico – come nel caso delle tasse, sempre evase – o esistenziale – come nel caso delle normative anticovid, da alcuni surrelmente avvicinate a provvedimenti nazifascisti.

Tuttavia, nel nostro sventurato Paese, sempre all’avanguardia nei più deteriori fenomeni di costume (siamo primatisti nell’evasione fiscale, nel numero delle auto pro-capite, nella scarsità di libri letti e nel numero di governi cambiati), su quest’ultimo aspetto si è superato ogni limite con la surreale crisi di Governo di questi giorni: scoppiata nel bel mezzo dell’emergenza, proprio mentre iniziava il complesso meccanismo delle vaccinazioni e si rialzavano per l’ennesima volta i numeri del contagio; attuata con le ormai abituali forme delle sfide rusticane e personalistiche, esibite sui media e per ragioni neppure spiegate con la dovuta chiarezza – prova ne sia che tutti hanno un’idea diversa sul perché dello scontro – e che, giuste o sbagliate che siano, avrebbero dovuto essere portate avanti con ben altri metodi e ben altra cautela. Ma si sa, oggi la politica è soprattutto mediatica, ai programmi si sono sostituite le persone e queste hanno bisogno di mantenere sempre alta la loro visibilità, evidentemente anche quando la casa sta bruciando.

E allora, stando così le cose, è davvero difficile continuare a dire e dirsi che andrà tutto bene, banalmente perché nessuno sta facendo nulla perché ciò accada. Ed è qui che la palla torna ai cittadini: sta a loro, con uno scatto d’orgoglio, essere – come spesso affermano – migliori dei loro governanti, ricordando ai litiganti che la priorità è venirne fuori in fretta. Sul come possano farlo, è difficile dire; certo, passaggi ineludibili non possono che essere la piena accettazione di una condizione drammatica e di tutte le sue scomode e fastidiose conseguenze; il conseguente accantonamento di polemiche, lamentele e proteste; un maggiore esercizio quotidiano della creatività nell’affrontare situazioni inusuali e solo apparentemente “limitanti”; infine – e forse soprattutto – una costante pratica della solidarietà nei confronti di quella minoranza che è davvero, e non solo esteriormente, colpita dalla pandemia e dalle sue conseguenze socioeconomiche.

Se non ci riusciranno, se continueranno a litigarsi come i polli di Renzo e a sfogarsi con il Governo per la pioggia che cade, allora sarà bene che i cittadini si preparino a periodi assai più duri di quelli che hanno attraversato nell’ultimo anno.

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