Nell’attesa di conoscere quale sarà il destino dei cittadini italiani quanto a Governo che ne decida le sorti – immediate certamente, future probabilmente – si può dire che, qualunque esso sia, non c’è da stracciarsi le vesti, dal momento che uno veramente degno non lo abbiamo né davanti, né alle spalle. Non c’è infatti alcun dubbio che il Governo che ha appena lasciato la scena, checché ne dica il suo Presidente, fosse ben lungi da avere un coerente e lungimirante progetto politico, così come non non ce n’è riguardo all’inconsistenza di tutti i progetti messi in campo dalle più diverse forze politiche (non solo) dell’arco parlamentare.
E se anche si volesse più modestamente ripiegare su un Governo che, seppur privo di una prospettiva politica degna di questo nome, fosse almeno capace di “gestire l’esistente”, come si è soliti dire, ebbene, anche in quel caso si può riaffermare che l’uno vale l’altro, poiché se quello che se ne va ha commesso senz’altro un’infinità di sbagli nella gestione della pandemia, chi gli si oppone e potrebbe sostituirlo è responsabile delle regioni che hanno fatto la differenza, in peggio, nel pessimo risultato complessivo del nostro Paese: per esempio, se non avessimo la Lombardia – ove si sono verificati leggendari e surreali errori – non saremmo la nazione europea con il più alto numero di morti per abitante.
Dunque, qualsiasi cosa accada – un nuovo Governo più o meno fotocopia, uno di solidarietà nazionale, le elezioni con la probabile vittoria dei Partiti di destra – non saremo comunque messi bene. E non lo saremo perché nel nostro Paese la politica latita, sostituita tra i cittadini dalle polemiche e dallo scarico di responsabilità all’insegna del “piove, governo ladro”, e tra i loro rappresentanti dal personalismo e dall’opportunismo. Se così non fosse, infatti, l’attuale crisi di Governo non sarebbe scoppiata, o comunque avrebbe avuto ben altra recezione da parte dei cittadini.
Le ragioni della crisi non sono infatti politiche, bensì cratiche: chi l’ha fatta scoppiare aveva cioè di mira l’interesse personale per il potere (cratos) e non quello pubblico per la città (polis). Non voglio dire che non esistano differenze politiche tra le parti in gioco, anzi, credo che siano anche più marcate di quanto non appaia ai più; se però fossero state davvero centrali, questo era il momento più inopportuno per farle valere, visto che – tanto per fare uno solo dei tanti possibili esempi – i tracolli dello spread seguiti alla crisi sono costati all’Italia in termini di tassi d’interesse sul debito tre volte più di quanto costerebbe prendere prestiti meno vantaggiosi del MES, osteggiato dai Cinquestelle e invocato da Italia Viva.
No, le ragioni della crisi non sono politiche, ma cratiche: stanno cioè nell’urgenza di recuperare un potere che, nel perverso modo in cui la politica viene praticata oggi, passa quasi interamente dalla visibilità e dal gradimento dei singoli attori, dei cosiddetti leader. Su questo piano, un po’ a sorpresa e in conseguenza della pandemia, il parvenu della politica Giuseppe Conte aveva ormai oscurato in modo talmente netto Matteo Renzi (il quale, prendendo a modello Berlusconi, sul personalismo ha fin dai suoi esordi basato la carriera politica) che questi non aveva altra scelta: o un colpo di scena, o la scomparsa. E colpo di scena è stato, con una crisi di Governo per la quale siamo presi in giro da tutto il mondo, motivata da ragioni che non stanno in piedi, condotta come un incontro di scacchi e nella quale chi l’ha aperta si è comportato come sempre in precedenza (essendo fiorentino conosco le “partite” di Renzi fin da quando le giocava contro i propri mentori): confidando sulla minore sfacciataggine e sul maggior senso di responsabilità dei contendenti. “Non ci sarà alcun voto”, diceva fin dall’inizio, prendendo a ostaggi i cittadini e confidando che gli altri non avrebbero avuto il coraggio di andare al voto, sacrificandoli. Un gioco sporco, sul quale ha ancora una volta mostrato una superiorità rispetto agli avversari.
Tale superiorità non è però politica: è infatti solo astuzia strategica applicata alla conquista del potere personale, la stessa che può essere messa a frutto nelle carriere private, nelle speculazioni, nei giochi di ruolo, nelle guerre. Renzi l’ha applicata a una “partita” la cui posta era e resta il proprio potere: perderlo – come ha detto sfacciatamente in un’intervista – gli “frega il giusto”, visto che può sempre contare su una ben avviata carriera di affarista internazionale; ma un ultimo tentativo di conservarlo doveva pur farlo, e l’ha fatto.
Non è questo il luogo per una disamina critica sulla perniciosità di una politica ridotta a questo; mi limiterò a osservare che, anche quando non commisto a interessi personali, il leaderismo è la fine della democrazia rappresentativa e l’inizio del “principato democratico”, per riprendere un’espressione di quel grande filosofo della politica che è stato Danilo Zolo. Ciò spiega tutta la mia avversione a figure come quella di Renzi, Berlusconi, Salvini, che spostano l’aspetto formale della politica in una direzione che ne rinnega gli elementi più nobili. Vorrei invece andare oltre e sottolineare gli aspetti più propriamente politici che, sebbene contingentemente, questa crisi porta con sé, anche perché sono quelli che i difensori (più indiretti che diretti, peraltro) di chi l’ha sollevata mettono avanti, sebbene in modo di solito piuttosto incoerente.
Ho premesso che a me il governo appena caduto non piaceva, zeppo com’era di persone impreparate, privo di un’identità e di un progetto politico, con componenti anche piuttosto inquietanti (basti pensare alla parte antieuropeista del M5S, a quella con simpatie esplicitamente sovraniste, ai no-vax, ai tanti neoliberisti del PD). Tuttavia, è innegabile che in passato si fosse visto di peggio, tanto che c’è persino chi l’aveva definito “il governo più a sinistra della storia della Repubblica”. Era migliorabile? Senza dubbio! Ma il fatto che sia caduto sotto i colpi della sua componente più destrorsa – certo economicamente, probabilmente anche globalmente – ne rende la caduta molto, molto preoccupante.
Dal punto di vista economico, che le richieste avanzate da Italia Viva sul Recovery Plan siano una svolta a destra rispetto a quanto prima proposto dal Governo non sono certo il solo a dirlo: per esempio lo affermano anche, analizzando in dettaglio le due diverse bozze del piano, un’accademica e politologa come Nadia Urbinati e un economista come Mario Pianta. E indirettamente lo confermano le dichiarazioni entusiastiche con cui i vertici di Confindustria hanno accolto quello di IV. Del resto, ciò non può stupire: sono noti gli orientamenti neoliberisti di Renzi, da sempre teso a togliere “lacci e lacciuoli” alla difesa sia dei posti di lavoro, sia della sicurezza e previdenza sociale, sia – soprattutto – dell’ambiente (e qui basti pensare agli infiniti danni del suo celebre “Sblocca Italia”). E allora, pur non potendo valutare se il “piano” di IV sia o meno “più efficiente” di quello proposto dal decaduto Governo, personalmente non posso che preferire comunque quest’ultimo: l’efficienza, accoppiata a un progetto dannoso, è comunque solo un’aggravante.
Non bastasse la componente economica, a preoccupare c’è poi l’elemento etico, che rimanda alla storia di un partito nato attorno un gruppetto di persone sempre tese a rappresentare e difendere lobbies economiche, tanto da essere tutte implicate (in prima persona e persino con i loro congiunti) in affari quantomeno “opachi”, e guidato da un leader che non ha mai smesso di flirtare con un plurinquisito e adesso condannato in via definitiva qual è Denis Verdini, e che ora si scopre anche implicato in un conflitto d’interessi internazionale di proporzioni epiche: un Senatore della Repubblica, membro della commissione difesa, che fa parte da anni di un think tank impegnato a promuovere gli investimenti in Arabia Saudita, paese terzo, non alleato, non democratico e colpevole di un’infinità di violazioni dei diritti umani1! Conflitto d’interessi non perseguibile, va ricordato, anche grazie al fatto che lo stesso Renzi ha sempre operato per impedire che fosse adottata una legge su questo tema.
Negli stessi giorni in cui il responsabile della crisi di Governo si recava in Arabia a svolgere i suoi ben pagati compiti di promotore finanziario per la dinastia saudita, quattro parlamentari europei del PD viaggiavano verso la Bosnia per monitorare la situazione umanitaria nel campo profughi di Lipa. Quando – come dice Renzi – “è in gioco il futuro del nostro Paese”, io vorrei che al tavolo ci fossero i secondi e non il primo: perché non c’è futuro per un Paese che s’interessa al denaro, ma non a come e con chi lo si maneggia, né c’è futuro per un Paese che non antepone i valori umani a quelli economici.
1 Per approfondire l’argomento, sul quale è stata ad arte diffusa molte false informazioni, consiglio di recuperare gli articoli pubblicati nei giorni scorsi dal quotidiano indipendente Domani, per esempio questo.