Archivio mensile:settembre 2021

Quando i chierici, più che tradire, sragionano

C’è qualcosa di profondamente inquietante nella vibrante polemica contro il green pass e l’obbligo vaccinale che imperversa in questi giorni nel nostro paese. E non mi sto riferendo né al dibattito politico – che ci riserva da sempre le cose più insensate, in quanto funzionali alla guerriglia finalizzata alla lotta per il potere – né alle pittoresche sparate di chi ritiene che i vaccini contengano microscopiche antenne o abbiano già ucciso migliaia di bambini (peraltro ancora neppure vaccinati). No, mi riferisco alle prese di posizione di esimi intellettuali, come Cacciari e Agamben o come i firmatari dell’appello contro il green pass negli atenei.

Sia chiaro: personalmente considero lo spirito critico un elemento decisivo dell’intelligenza umana e, in generale, ho stima e attenzione per chi non si omologa e solleva dubbi; credo però che pensare abbia delle regole, violate le quali tutto diventa lecito, trasformandosi in mera e confusa retorica, entro la quale i più deboli diventano vittime e strumenti nelle mani dei più forti. Nel dibattito attuale quelle regole vengono costantemente violate e, quel che è veramente grave, proprio da coloro che dovrebbero essere i più preparati a riconoscerle e difenderle.

Prendiamo Massimo Cacciari: la settimana scorsa, sulla prima pagina de La Stampa, presenta un ennesimo articolo nel quale denuncia gli abusi nella gestione della pandemia, e lo fa “socraticamente”, in forma di domande, giacché – afferma – “so di non sapere e chiedo a chi crede di sapere”. Tra queste domande c’è la seguente:

Vorrei sentire dai giuristi: è o non è in contraddizione col regolamento UE 2021/953, che vietava ogni discriminazione, l’istituzione del Green Pass, nei termini in cui diventerà legge in Italia? E ai nostri illustri costituzionalisti vorrei chiedere: non sembra loro che la possibilità di obbligare a trattamenti sanitari dipenda dal pieno «rispetto della persona umana»?

Gli risponde il giorno dopo, sempre su La Stampa, un giurista ed ex membro della Corte Costituzionale qual è Gustavo Zagrebelsky, cioè uno che – più di “credere di sapere” – è al corrente dei fatti ed è padrone della materia più di Cacciari:

in tema di limitazione del diritto fondamentale di rifiutare trattamenti sanitari come in particolare i vaccini, da tempo, ripetutamente ed anche recentemente si sono pronunciate sia la Corte costituzionale, sia la Corte europea dei diritti umani. Entrambe hanno ritenuto che gli Stati possano imporre le vaccinazioni, nelle forme e modi ritenuti adeguati alla necessità di proteggere la salute della comunità con la copertura vaccinale. In Italia è esplicito l’articolo 32 della Costituzione quando definisce la salute come diritto fondamentale della persona e interesse della comunità. Tanto che, nel rispetto della persona, la legge può imporre trattamenti sanitari. Si tratta di una norma costituzionale specifica, che riflette un carattere fondamentale del nostro sistema costituzionale, che, all’articolo 2, afferma il legame stretto tra i diritti dei singoli e «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà». Dal punto di vista del diritto, dunque, in questa materia non ha senso la pretesa di libertà individuale senza limiti.

Sebbene lo stesso Zagrebelsky riconosca che il dibattito democratico con ciò non si chiude – ovviamente, perché in democrazia un dibattito non può chiudersi – la domanda che viene spontanea qui è: ma Cacciari davvero non sapeva che la questione aveva già trovato risposte dalla corte costituzionale e dalla corte europea? Detto diversamente: con tutta la sua cultura filosofica e politica, era davvero così ignorante, o la sua domanda era una manovra retorica mirante a manipolare (come infatti è accaduto) l’attenzione dei lettori che la pensano come lui? In entrambi i casi, non solo ha fatto una pessima figura, ma ha anche contribuito a inquinare ancor più quell’informazione della quale a ragione lamenta la non trasparenza e quel dibattito che altrettanto giustamente ritiene irresponsabile. Quantomeno, avrebbe fatto bene ad essere più accorto.

Prendiamo allora il manifesto dei docenti contrari al green pass. L’iniziativa ha trovato eco in un discorso dello storico Alessandro Barbero, il quale ha affermato che meglio sarebbe l’obbligo vaccinale di quell’ipocrita “patente”, che a suo parere è solo un discriminatorio obbligo mascherato. Parole sorprendenti, se si considera che l’obbligo vaccinale – come detto, riconosciuto valido dalle corti costituzionali italiana ed europea – si configura comunque come un’imposizione sul corpo del cittadino e perciò, in quanto tale, in contrasto (in modo non necessariamente inaccettabile) con l’habeas corpus, mentre il green pass non solo lascia intatta la libertà di scelta (è ben possibile pagare il prezzo della rinuncia di parte della vita sociale per non sottoporsi a un trattamento profilattico, così come è possibile accettare di rinunciare al sole e all’aria del giorno chiudendosi in una fabbrica per guadagnarsi da vivere), ma anzi è coerente con una scelta doverosamente etica qual è quella di rinunciare volontariamente alla vita sociale per proteggere i propri simili, avendo per propria scelta conservato una maggiore pericolosità nei loro confronti. Davvero un docente universitario non riesce a riconoscere che quel che chiama “ipocrita costrizione” è invece autentica concessione di libertà (per quanto condizionata alla tutela degli altri cittadini)? Pronunciando tali parole, Barbero si fa emblema di una svista frequente in questo periodo, ma onnipresente da sempre nel nostro paese: quella che in una regola di comportamento vede solo l’imposizione e non ne riconosce le ragioni processuali, vede l’aspetto soggettivo, celandosi quello intersoggettivo. E, con la sua preferenza per l’obbligo vaccinale, assume occultamente una concezione elitaria e dispregiativa del cittadino: incapace di scegliere liberamente il comportamento tanto praticamente, quanto eticamente migliore, è meglio che venga paternalisticamente obbligato ad assumerlo dallo Stato.

Di diverso tenore, ma forse anche peggiori, le parole pronunciate da un altro sostenitore della petizione dei professori, il filosofo del diritto Paolo Becchi, in un intervento su radio1, il quale ha sostenuto che il green pass sarebbe inaccettabile nelle Università, luoghi di scambio e di libertà. La libertà, è ovvio, sarebbe quella di non vaccinarsi: ma che dire della libertà dei vaccinati di recarsi in Università senza imbattersi in chi ha maggiori possibilità di contagiarli? Incalzato dall’intervistatore su questo tema, Becchi ha mostrato un classico delle argomentazioni di questi giorni; in un fiat è passato infatti dal dibattere di libertà e costituzione al contestare i dati di fatto: il vaccino non immunizzerebbe, i vaccinati trasmetterebbero il contagio “esattamente quanto” i non vaccinati, addirittura i vaccini sarebbero responsabili della diffusione delle varianti e dei morti dell’ultima ondata del virus. Esattamente il contrario di quanto, dieci minuti prima e nella stessa trasmissione, aveva detto un esperto di statistica illustrando dati raccolti in Italia, in Europa e in Israele.

Quest’ultimo caso, che si ripete quasi a ogni discussione, è forse il più inquietante. Chi si oppone all’obbligo vaccinale, o al green pass, o – in precedenza – alle mascherine, al distanziamento, al lock down, parla di libertà, ma appena incalzato sul tema, svela immancabilmente il suo fondamento: non crede che le misure servano. Ma, di solito, non ha alcuna preparazione per sostenerlo! Siamo, in altre parole, all'”uno vale uno” e al “basta cercare su Internet”, ovvero alla morte della competenza; solo che, stavolta, a uccidere la competenza sono proprio i competenti: esperti in altro, pretendono tuttavia di allargare la loro autorevolezza oltremisura. Ed è proprio per quello che si nascondono dietro alle questioni di principio e di valore: perché su quel terreno hanno autorevolezza e cercano di farla valere per sostenere una posizione che, invece, si basa su credenze rispetto alle quali la loro competenza è prossima allo zero.

Perché il dubbio è giusto e necessario, ma vale in un contesto teoretico e, da solo, non permette di costruirsi la propria realtà a piacimento. Se sono uno storico, un giurista, o – come il sottoscritto – un filosofo, posso dubitare di quel che mi dice la comunità scientifica, posso discutere riguardo al fatto che ci siano voci discordanti (come, peraltro, nella scienza avviene sempre), posso alimentare il dibattito, ma non posso dire “le cose non stanno come dicono gli scienziati”: una tale presa di posizione è da terrapiattisti, e poco importa se chi lo fa ha una laurea e un’autorevolezza guadagnatasi in altro campo. Poco importa perché – pare ormai chiaro – di fronte a questo sfrenato carosello che è stata (ed è ancora chissà per quanto tempo) la pandemia, ricchi e poveri, potenti e miserabili, colti e ignoranti, tutti hanno mostrato le loro debolezze e tutti hanno fatto a gara a cercare dati, notizie e argomenti che confortassero le loro personali e urgenti necessità: che si potesse tornare presto a vivere come prima; che non fosse successo niente; che nessuno limitasse le sue libertà; che non ci fosse necessità di cambiare modo di vivere, di lavorare, di relazionarsi con gli altri; che lo Stato non imponesse comportamenti, foss’anche solo di farsi un’iniezione a rischio prossimo allo zero; soprattutto, che non fosse necessario fidarsi di qualcuno – i medici, il Governo, le istituzioni democratiche, in genere i propri simili – cosa alla quale, vivendo in società individualistiche e competitive, siamo sempre più disabituati.

E così abbiamo visto non solo masse sbandare sparlando di complotti da far invidia alla Spectre di Jan Fleming, ma anche chierici tradire credendosi Giacobini e intellettuali argomentare come analfabeti di ritorno che si abbeverano allo smartphone come se fosse la Bibbia.

Di fronte a tutto questo, lo sconforto sopravanza. Se non fosse che, poi, le statistiche ci dicono che l’80% dei cittadini sarebbero a favore dell’obbligo vaccinale. Che non sia la cultura quel che può salvare l’umanità?

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