Archivio mensile:giugno 2021

Il diritto, l’orrore, le “bestie”: riflessioni sul caso Brusca

Le polemiche sorte nei giorni scorsi attorno alla scarcerazione di Giovanni Brusca testimoniano quanto sia grande e – soprattutto – diffuso il deficit di educazione civica di questo Paese, ma anche di quanto ancor oggi la cultura di massa in Italia poggi su fondamenta arcaiche e di derivazione mitologico-religiosa.

I fatti sono noti: Brusca, criminale mafioso accreditato di centocinquanta omicidi – tra i quali quelli del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito e sciolto nell’acido, e di Giovanni Falcone, la moglie e la scorta – è stato rimesso in libertà, ancorché vigilata, dopo venticinque anni di carcere; la sua liberazione è avvenuta secondo le leggi vigenti, valide per tutti, senza alcun tipo di eccezione o di liberatorie ad personam; gli sono invece valse le facilitazioni dovute all’essere nel frattempo diventato collaboratore di giustizia e alla buona condotta.

Nonostante la trasparenza della decisione, sottolineata tra gli altri dall’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, gran parte dell’opinione pubblica ha manifestato la propria indignazione. In buona sostanza, si è sostenuto che non si debba rimettere in libertà chi abbia compiuto un tal numero di delitti di così grande efferatezza, ovvero – espresso in termini più diretti – che un tale “animale” (come lo stesso Brusca si autodefinì nel corso del processo) non meriti altro che passare la propria intera esistenza in galera. Una valutazione, questa, già diffusamente emersa alcuni anni fa, quando a Brusca furono concesse delle uscite temporanee per incontrarsi con la propria famiglia.

Non ci vuol molto per rendersi conto che questa posizione è in contrasto con numerosi principi:

  • quelli del nostro ordinamento giudiziario, che prevedono la pena a scopi non solo e non tanto punitivi, quanto con finalità correttive, perciò incompatibili con il carcere a vita;
  • quelli costituzionali, in particolare all’art. 27 della Costituzione, come recentemente confermato dalla Corte Costituzionale;
  • quelli etici, relativi a un trattamento umano anche nei confronti di chi si sia macchiato di reati gravissimi.

Come si spiega allora la così ampia diffusione di questa convinzione? Discutendo con alcuni suoi sostenitori, ho potuto appurare come essa poggi essenzialmente su basi emotive invece che etiche o giuridiche, ovvero riguardi molto più il sentimento di chi la sostiene che non la giustizia.

Infatti, l’argomento più frequentemente addotto a sostegno è a un dipresso il seguente: chi, come Brusca, abbia reiteratamente compiuto atti che offendono il comune “umano sentire“, che producono “orrore”, viene percepito come “inumano”, ossia come un vero e proprio “mostro”, caratterizzazione inappellabile, incancellabile e definitiva; questo fa venir meno anche l’emendabilità del reato e il principio della correzione del reo, su cui si basa l’ordinamento giuridico, cosicché resta per tal tipo di criminali solo la possibilità di essere rinchiusi a vita in una gabbia, come le bestie feroci.

Come ben si vede, a fondare il giudizio non sono complesse valutazioni sui molteplici principi e diritti, bensì è l’orrore causato in chi giudica dall’immaginare l’atto efferato: l’emozione destata dall’evento fa del suo autore un essere bestiale, pericoloso, inavvicinabile; la brutalità e la reiterazione degli atti portano a trascendere il giudizio morale – atto complesso che deve tener conto della pluralità dei valori in gioco – dando acceso a quell’universo moralistico, tipico del pensiero arcaico, nel quale il Bene e il Male sono entità reificate che non permettono né di essere analizzate e comprese, né di essere trattate con modalità “umane”, civili, quelle cioè istituite con il diritto. In quell’universo per il Male non c’è redenzione: c’è solo l’Inferno – in questo caso la reclusione a vita, che poi non è altro che la “morte bianca”, la quale, diversamene dalla pena di morte, non “sporca” la coscienza di chi la infligge.

Che le cose stiano così è confermato da molti altri aspetti del dibattito pubblico della settimana scorsa.

In primo luogo dal fatto che i primi sostenitori di questa posizione siano stati i parenti di parte delle vittime, i quali – comprensibilmente, vista l’irrimediabilità del danno subito – hanno semplificato la questione, polarizzandola interamente sul piano personale. E’ umano che, di fronte alla perdita di una persona cara, non si riesca a conservare la lucidità razionale necessaria a dare un giudizio giusto – ovvero tenente conto di tutti i principi etici che una società civile deve contemperare – e si finisca per far prevalere la rivendicazione, se non proprio la vendetta. Tanto è umano, che né le vittime, né i loro parenti sarebbero ammessi in una giuria preposta a giudicare un reo.

In secondo luogo, è confermato dal fatto che anche parte dei sostenitori del giudizio inappellabile abbiano richiesto di “mettersi nei panni dei familiari delle vittime”, laddove la giustizia richiede di tener conto anche di moltissimi altri fattori, tra i quali i diritti umani del reo: ma quest’ultima cosa era per loro inaccettabile, visto che il reo era una “bestia”, non un uomo.

Infine, lo conferma la richiesta spesso esplicitamente avanzata di un trattamento diverso nei confronti di un tal tipo di reo, ovvero di una deroga al diritto – anche questo contrario alla Costituzione, precisamente all’art. 3, e pure recentemente contestato dalla Corte Costituzionale – possibile solo se si fa perdere a esso la qualifica di “essere umano”.

Facile che a questo punto ci sia chi possa provare a risolvere la questione usando grossolane categorie, qual è quella di “buonismo”. Niente di tutto ciò, perché anche un tale concetto ricade nel pensiero arcaico e mitologico-religioso: l’etica e il diritto non si riducono al binario Bene versus Male, così come lasciano indietro le risposte emozionali; esse prevedono attente valutazioni che permettano un’equilibrata e giusta compenetrazione dei valori in gioco: quelli delle vittime e dei loro parenti, quelli della società (e qui basti rimandare ancora a quanto detto da Grasso riguardo all’importanza della legislazione sui pentiti per la lotta alla mafia), quelli degli stessi rei, che restano pur sempre “umani” e non possono essere ridotti a mere “bestie” se non scendendo sul loro stesso livello.

Resta tuttavia un fatto, che a me suona certo meno atroce, ma forse ancor più grave dell’esistenza di persone come Brusca, cioè che una parte enorme della società “civile” del nostro paese abbia potuto sposare un giudizio come quello cui abbiamo assistito. Un fatto che ha fondamentalmente due ragioni:

  • la prima è la scarsissima educazione civica degli italiani, che deriva dall’esiguo spazio a essa riservato sia nel sistema scolastico, sia nei media, e che produce continui danni ogni volta che nel nostro Paese si affrontano questioni sociali e politiche;
  • la seconda (mi spiace ripetermi, ma questo è un tema purtroppo ricorrente) è la priorità che la nostra cultura assegna alla sfera emozionale rispetto al pensiero razionale: ha senso seguire le emozioni nelle scelte e nei giudizi solo in situazioni personali e d’emergenza; laddove siano in gioco scelte e giudizi sociali o politici e vi sia tutto il tempo per valutare a fondo, allora la parola passa alla ragione.

Ne va della nostra civiltà, che è qualcosa di complesso, sedimentato e argomentato; ridurre tutto alla diade Bene/Male e all'”occhio per occhio, dente per dente” ci fa tornare indietro di quattro millenni, al codice di Hammurabi, con conseguenze che potrebbero essere orribili quanto i delitti di Brusca.

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