Dopo aver convinto Grillo con l’istituzione di un ministero alla Transizione Ecologica, Mario Draghi ha presentato il suo Governo dichiarando di volergli dare un’impronta “fortemente ambientalista”. Dato che, comprensibilmente, a questa dichiarazione d’intenti mancano per ora altre specificazioni, i più sembrano intenderla in modo quantomeno riduttivo: si tratterebbe in buona sostanza di ridurre l’impiego di energie fossili, responsabili tanto dell’inquinamento delle città, che incide sulla salute dei cittadini, quanto dell’aumento di C02 nell’atmosfera, che influenza i cambiamenti climatici. Ciò permetterebbe di dare una forte spinta alla cosiddetta green economy, settore della produzione e del consumo su cui si confida molto per ravvivare la famigerata crescita e che fin qui non è riuscita a mantenere le promesse.
Nonostante la sua riduttività, c’è già chi s’interroga sulla sostenibilità economica di tale interpretazione della “svolta ecologica” del Governo; anche giustamente, visto che, come ogni cambiamento, essa avrebbe delle ricadute su alcuni settori che dovrebbero passare da una riconversione, con conseguenze sociali e politiche potenzialmente anche deflagranti, come dimostrano alcuni tentativi analoghi fatti all’estero – su tutti, quello francese, che in reazione all’imposizione di una Carbon Tax sui carburanti vide la nascita della rivolta dei gilet gialli.
Tuttavia, un Governo “fortemente ambientalista” dovrebbe andare ben oltre il tema dei combustibili fossili: tutti sappiamo, infatti, quanto sia insostenibile lo sfruttamento operato oggi dall’uomo su tutte le risorse del pianeta, a causa di un modello di sviluppo fortemente dissipativo che viene giorno dopo giorno adottato da ogni Paese. La misura ce la indica simbolicamente l’Overshoot Day, il giorno in cui vengono consumate le risorse che la biocapacità della Terra è in grado di rigenerare in un anno, che nel 2020 è caduto il 22 agosto: i rimanenti quattro mesi sono rimasti fuori dalla sostenibilità ambientale. E l’anno precedente, senza la limitazione delle attività produttive imposta dalla pandemia, quel giorno era caduto addirittura un mese prima, il 29 luglio.
Un Governo “fortemente ambientalista” dovrebbe farsi carico di questa realtà, non solo del problema climatico. Magari iniziando proprio dalla differenza delle due date dell’Overshoot Day del 2019 e 2020, la quale ci indica simbolicamente il solo modo che abbiamo per affrontare il problema ambientale: progettare un diverso modello di sviluppo, meno dissipativo e che abbia di mira non l’aumento della produzione e del P.I.L., bensì la loro conservazione e condivisione. Una cosa che vale a maggior ragione per l’Italia, il cui stile di vita è al nono posto mondiale nella graduatoria di insostenibilità: per rigenerare le risorse utilizzate dai suoi cittadini servirebbero quasi cinque Italie, mentre se tutti gli abitanti del pianeta lo adottassero, non basterebbero due Terre e mezzo per sostenerle.
A fronte di tutto questo, non ha nessun senso chiedersi a chi spetti accollarsi il costo della svolta ecologica del Governo: prima è necessario capire di che tipo essa sia.
Se si tratta di una svolta autentica, che si faccia carico della complessità del problema, un interrogativo del genere è inutile: in quel caso, infatti, non c’è da “pagare”, bensì da progettare una radicale riforma socioeconomica, da attuare in modo progressivo e sul lungo periodo, che renda possibile per tutti una vita soddisfacente con meno beni materiali, attraverso la condivisione della ricchezza e la riorganizzazione delle funzioni.
Se invece si tratta solo di ridurre le emissioni nocive, allora la domanda è egualmente inutile, ma stavolta perché – essendo un’operazione di facciata, mirata solo a giustificare l’assegnazione di quella parte del Recovery Fund legata all’emergenza climatica – è chiaro che come sempre la pagheranno i soggetti economicamente più deboli, al massimo in modo progressivo, con dilazioni scandite dalle proteste, com’è avvenuto in Francia.
Nell’attesa che i concreti passi del Governo svelino l’incognita, non si può però non osservare che la nomina a Ministro non già di un esperto di politiche ambientali – quale poteva essere per esempio Marco Morosini, emerito professore della materia che già da anni auspicava un Ministero di questo tipo – bensì di un tecnocrate qual è Roberto Cingolani, non lasci purtroppo ben sperare.