Come a ogni tornata elettorale, puntualmente anche in questi giorni ha imperversato la retorica del cosiddetto “voto utile”, che esorta gli elettori a non votare chi li rappresenti politicamente bensì chi, pur non rappresentandoli, possa impedire la vittoria elettorale di una parte politica ritenuta più deplorevole.
Attorno al “voto utile” si sollevano spesso furibonde polemiche, soprattutto perché esso viene utilizzato verso i potenziali elettori – di destra e (più spesso) di sinistra – dai partiti di centro, i quali o sono involuzioni di forze un tempo assai meno moderate, oppure ancor oggi includeno figure che in passato hanno rappresentato quegli elettori che si invita al “voto utile”. Polemiche sulle quali qui non entreremo, così come non prenderemo in considerazioni l’apparato retorico che ruota attorno al “voto utile”, limitandoci a poche osservazioni di principio, a mio parere assolutamente decisive riguardo alla sua condanna senza appello.
Come ho avuto modo di osservare tempo fa in riferimento al quesito referendario, la nostra è una democrazia rappresentativa, il buon funzionamento della quale prevede che in Parlamento avvenga, ancorché in forma ridotta e mediata, quel dibattito dialogico tra i cittadini che avveniva in forma diretta nelle città-stato ove la democrazia è nata. Il cuore della democrazia, infatti, è proprio quel dibattito: momento di partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica per il tramite di portavoce che ne rappresentino idee ed esigenze, esso è il solo strumento capace di favorire la messa a punto di proposte che tengano conto di tutte le differenze presenti nella società. Ma, affinché ciò sia possibile, è necessario che il Parlamento e le Istituzioni locali siano lo specchio fedele delle idee espresse dai cittadini, ovvero che questi eleggano portavoce che li rappresentino realmente e che questi ultimi si confrontino costantemente con chi li ha eletti.
Non è quindi difficile capire che il cosiddetto “voto utile” rende di fatto impossibile il buon funzionamento della democrazia rappresentativa: qualsiasi sia infatti la ragione per cui lo si faccia, votare chi non rappresenta le proprie idee ed esigenze fa sì che il cuore della vita democratica, il confronto dialogico delle differenze, venga totalmente falsato. Il “voto utile” è una vera e propria aberrazione: esercitarlo significa da un lato non aver capito il senso della democrazia, dall’altro corromperne il funzionamento.
Qualcuno potrebbe obiettare che il “voto utile” serva tuttavia a evitare i danni provocati da un possibile governo di parti politiche intransigenti ed estremiste. Ammesso che sia vero (e certo in alcuni casi lo è), questo suo presunto “vantaggio” è ampiamente compensato dal danno che esso provoca alla vita democratica: se quelle parti politiche risultano maggioritarie è infatti perché le loro idee sono prevalenti tra i cittadini; impedirne l’affermazione elettorale attraverso una falsa espressione di voto da parte degli elettori è una netta violazione dei principi democratici – per quanto non perseguibile, addirittura prossima al voto di scambio.
L’unica cosa che si può dire a parzialissima scusante di chi scelga il “voto utile” è che, sebbene in Italia lo si propugni fin dagli esordi della Repubblica, di fatto la sua “utilità” è fortemente cresciuta con l’introduzione del sistema maggioritario, una riforma che ha a sua volta leso gravemente i principi della democrazia rappresentativa: si basa infatti sull’aggiramento della funzione del confronto dibattimentale al fine, dimostratosi illusorio, di rendere più stabili e nette le maggioranze di governo. Tuttavia, se si ha a cuore la democrazia, a tale riforma sarebbe necessario opporsi, mentre tutto al contrario esercitare il “voto utile” significa adeguarvisi e confermarne, accentuandola, la deriva antidemocratica.
Osservare tutto questo, purtroppo, è però come predicare nel deserto, visto che contemporaneamente al “voto utile” molti sedicenti democratici sostenevano a questa tornata anche l’approvazione referendaria del taglio dei parlamentari, palese riduzione della rappresentatività delle differenze che giustamente attraversano il corpus della società civile. Così, di riforma in riforma, di riduzione in riduzione, i cittadini si convinceranno sempre più che la sola “utilità”, per loro, sia andarsene al mare il giorno delle elezioni. Da quando, nel 1993, è iniziata la deriva “riformista”, coloro che la pensano così sono non a caso già cresciuti del 35%.