Qualche giorno fa ascoltavo alla radio un’intervista a una studiosa di “migrazioni climatiche”, la quale spiegava con dovizia di dati raccolti sul campo non solo che molti di coloro che arrivano in Europa dall’Africa lo fanno perché i mutamenti climatici stanno rendendo loro impossibile sopravvivere con i tradizionali modi di produzione, ma anche che il numero di coloro che soffriranno del problema è destinato ad aumentare in modo esponenziale, cosicché tra poche decine di anni rischiamo l’arrivo di duecentocinquanta milioni di persone. La studiosa non ha preso posizioni “politiche” sul tema, dicendo solo che oggi l’immigrazione sarebbe a suo parere lontana dall’essere allarmante (tesi invisa alla destra), ma che se non si affronta il problema lo diventerà a livelli apocalittici (tesi invisa alla sinistra). A un certo punto ha telefonato un ascoltatore, il quale ha contestato le affermazioni della ricercatrice sostenendo che l’immigrazione è dovuta a una precisa strategia di “sostituzione etnica”, progettata dall’Islam e finanziata dal potere economico globalizzato, appoggiando la sua tesi sui libri di Oriana Fallaci. La ricercatrice, con qualche imbarazzo, si è limitata a ricordare i dati sull’erosione dei terreni e sull’aumento delle carestie, prima di cambiare argomento.
Questo episodio è emblematico della situazione in cui viviamo: se due problemi epocali, il cambiamento climatico e le migrazioni, vengono presentati nella loro realtà attraverso dati frutto di ricerche scientifiche e viene mostrata l’urgenza di risposte che, al momento, nessuno dà, né forse conosce, il cittadino – cioé l’elettore di coloro che dovrebbero cercare e dare risposte – li ignora, anzi li fa scomparire, grazie a un’ipotesi degna di un romanzo scadente, accreditandola con il riferimento all’autorità di una scrittrice di successo, oltretutto morta tredici anni fa, cioé quando il mondo era piuttosto diverso. Un modo infantile di regire alle problematiche che la realtà ci mette di fronte, perché ne riduce la complessità – che è quanto rende arduo trovare risposte – all’opera di un “cattivo” da combattere, creato con una grossolana ipotesi ad hoc di tipo complottistico. Un infantilismo che sostituisce il faticoso processo di progettazione di risposte, le quali – per problematiche di questo livello – non possono che richiedere una messa in discussione della nostra immagine del mondo, dei modelli di sviluppo, degli stili di vita, nonché la creazione di nuove e alternative concezioni della convivenza civile, tanto mondiale, quanto nazionale e locale.
Quel cittadino che ha telefonato l’altra sera, però, né è isolato, né rappresenta solo la destra (o una certa destra): è invece rappresentativo della cultura di massa che informa il modo di far politica di gran parte dei cittadini – certamente di quelli italiani, probabilmente non solo di loro. Ne sia prova il movimento che da qualche settimana è al centro dell’attenzione dell’opinone pubblica, le cosiddette “Sardine”. Le quali scrivono sul loro “manifesto”:
Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita. (…) Adesso ci avete risvegliato. (…) Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti. (…) Siamo un popolo di persone normali.
Persone così fanno politica allo stesso modo del signore di cui sopra: senza pensare, senza studiare la realtà e senza provare a capirla. Al punto che non solo sono populisti (portano in piazza le persone senza distinzioni né proposte, ma con la sola parola d’ordine di combattere l’avversario), ma addirittura lo dicono (“siamo un popolo”), senza però essere consapevoli né dell’una, né dell’altra cosa, visto che il loro nemico sono proprio… i populisti!
Quando scrivo queste cose, mi sento dare del disfattista, perché sarebbe da salutare con entusiasmo il fatto che tante persone si mobilitino per contrastare una destra xenofoba, spesso anche razzista, antieuropeista, aggressiva fino alla violenza, ecc. Capisco l’obiezione, ma non la condivido: se quella destra è lì, la responsabilità è anche delle migliaia di mobilitazioni senza pensiero e senza progetti che ho visto da quando, a metà degli anni Settanta, ho iniziato a seguire la politica. Sì, perché il problema non sono le Sardine, ma la coazione a ripetere che esse rappresentano; il problema è una certa concezione di quella che viene chiamata “politica dal basso”, ma che perlopiù è solo politica di basso profilo.
Chiariamoci bene: non sto affatto sostenendo che la politica debba essere fatta dall’alto; al contrario, penso che “politica” sia l’opera del cittadino negli affari della polis, termine che se nell’antichità designava la “città”, oggi individua invece il mondo intero (“nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà”, recitava la canzone di Pietro Gori). La politica è compito dei cittadini, tutti i cittadini, quindi deve essere fatta dal basso.
Ma, per fare politica, il cittadino non può limitarsi a protestare, rivendicare, ovvero a mettere in piazza le proprie insoddisfazioni, chiedendo a chi governa – al potere – di dare risposta al suo malcontento; ha invece il dovere di partecipare alla costruzione delle risposte. Ma affinché queste ultima possano essere concrete, realizzabili e non lesive degli altrui diritti, il cittadino ha anche il dovere di mettere da parte il proprio immediato interesse (anche quando faccia parte dei meno avvantaggiati) e di conoscere e studiare la complessità della realtà; in caso contrario finirà per cadere in un conflitto di interessi e – soprattutto – non avanzerà proposte ma solo rivendicazioni, oppure farà proposte di corto respiro, che potranno al massimo rispondere ai suoi problemi creandone di nuovi ad altri.
I movimenti di piazza, dagli anni Settanta in poi (cioé da quando la crisi petrolifera successiva alla chiusura del Canale di Suez a causa delle guerre arabo-israeliane ha fatto concretamente percepire la fine del sogno della “crescita infinita”), hanno sempre più trascurato lo studio e la progettazione di alternative, limitandosi alla rivendicazione. Sia chiaro: è ovvio che in piazza non si pensa, né si progetta, ma ci si limita a manifestare; ma fino agli anni Settanta chi andava in piazza lo faceva per manifestare il proprio supporto alle proposte elaborate dai soggetti collettivi che li rappresetavano nelle Istituzioni – i partiti, in Italia precisamente il PCI. Era all’interno di quei soggetti collettivi che si studiava e progettava: lo facevano i rappresentanti politici eletti dai cittadini, lo facevano gli intellettuali (allora ancora “militanti”), lo facevano anche almeno una parte dei cittadini, grazie alle strutture messe loro a disposizione dai partiti. Poi, prima a causa del frazionamento delle cosiddette “sinistre radicali” (che inizialemente erano solo critiche nei confronti del “socialismo reale”), poi con l’avvento del cosiddetto “partito leggero” (che di fatto ha significato la riduzione del partito alla sola classe dirigente e il suo isolamento dalla realtà sociale) i movimenti hanno finito per manifestare esclusivamente il loro privato malcontento. Con due soli obiettivi, del tutto residuali: sedare la frustrazione dell’impotenza con la percezione di “essere in tanti”; provare ad arginare, o se possibile deviare, il corso dato alla polis dal potere, un corso che ha via via finito per essere sempre il medesimo sia che il potere fosse nelle mani della destra, sia che fosse in quelle della sinistra, dato che entrambe condividevano la medesima immagine del mondo.
Oggi questa deriva prosegue inesorabile, accomunando i VaffaDay dei Cinquestelle e i Friday For Future, i Gilet Gialli francesi e le manifestazioni contro la guerra, le proteste di Potere al Popolo e le Sardine: tutti in piazza contro qualcuno, ma senza alcun proposta, o al massimo con rivendicazioni prive delle concrete procedure per poter essere soddisfatte. Con il risultato che niente di quel che viene chiesto verrà mai soddisfatto, così come successo a quel che è stato chiesto in passato da analoghi movimenti, tutti populisti perché basati solo sul valore dell’unità dei manifestanti, tutti di bassa lega perché mai proponenti una concreta e alternativa immagine politica del mondo.
E allora – con tutto il rispetto per la buona volontà e l’energia di chi va in piazza – mi permetto di dire questo, proprio questo è disfattismo: perseverare nell’errore infantile di protestare invece di proporre e nella grossolanità di pensare che i problemi della polis siano solo quelli che ci riguardano direttamente. C’è bisogno, certo, di “politica dal basso”: ma non in piazza, bensì nelle biblioteche, nelle sale da congresso, nei circoli. Perché serve un’alternativa, non una protesta. O tutto finirà, come sempre, nel nulla.