Archivio mensile:aprile 2013

Il gattopardismo del familismo amorale

In Italia, sul piano sociale, abbiamo un problema fondamentale e ben preciso: la scarsissima mobilità sociale, tra le più basse dei paesi del “primo mondo”, che fa sì che possa accedere a certi ruoli sociali e professionali perlopiù solo chi appartenga a una famiglia che già vi accede. Fa l’avvocato chi ha il padre o lo zio avvocato, il professore universitario chi ha la madre professoressa d’università, mentre chi appartiene a una famiglia di operai fa l’operaio e chi ha i genitori alle poste il postino.

Non si tratta di un grossolano luogo comune: “Fra il 2000 e il 2008, meno di una famiglia ricca su 100 è diventata povera. E solo una famiglia povera su 50 è diventata ricca. Oltre l’80 per cento dei poveri è rimasto povero o quasi. E quasi il 90 per cento dei ricchi è rimasto, più o meno confortevolmente, ricco” (La Repubblica, 3 marzo 2010). Ciò riguarda anche la politica, vuoi perché oltre il 70% dei parlamentari appartiene al ceto dei liberi professionisti ordinistici (medici, avvocati, professori), vuoi perché – guarda caso – per accedere agli alti livelli della politica pare essere spesso necessario avere in famiglia chi lo ha già fatto. Due esempi per tutti, presi dalla parte che pretenderebbe di lottare contro le diseguaglianze: il padre di D’Alema era nel comitato centrale del PCI, quello di Veltroni (giornalista specializzato in cinema e che ha diretto l’Unità) era direttore dell’Unità (e la figlia fa la regista cinematografica).

Basta guardarsi attorno per rendersi conto di quanto sia macroscopico il problema, basato sul fenomeno del “familismo amorale” (Edward Banfield, Le basi morali di una società arretrata, 1958, non a caso tradotto nel nostro paese solo diciotto anni più tardi) e particolarmente diffuso in Italia per il perverso modo in cui, anche grazie al Vaticano, vi si sperimenta la famiglia. Un problema che, non c’è certo bisogno di spegarlo, è alla radice delle ineguaglianze nelle opportunità, ma che – forse questo è il caso di sottolinearlo – contribuisce in modo determinante anche ad azzerare l’importanza del merito e ad assegnare i posti di responsabilità nella società per eredità, talvolta largamente a prescindere dalle competenze e dalle qualità degli assegnatari.

Da qui, e non dal rinnovamento astratto della classe politica, dalla riduzione dei suoi costi, dall’aumento della rappresentanza femminile o immigrata, o da altre questioni affini sarebbe necessario partire per dare a questo paese un volto nuovo. Da qui, non già perché le altre cose non siano importanti – lo sono, e molto – ma perché sono conseguenze di questo vizio d’origine, prima e fondamentale corruzione del nostro paese, da cui nascono i privilegi e le “caste”.

Teniamolo ben a mente, quando (e se) cercheremo di dar vita a qualcosa di diverso nella società e nella politica italiane. E teniamolo a mente anche guardando al governo che s’è appena insediato, diretto da un signore – Enrico Letta – catapultato nella politica fin da giovanissimo, arrivato a fare il ministro a tretadue anni (il più giovane della storia della Repubblica, credo), designato Presidente del Consiglio dopo essere stato vice segretario di una segreteria deficitaria e dimissionaria e che, per curiosa coincidenza, ha uno zio – Gianni Letta – braccio destro del capo dell’altra fazione politica, con il quale negli ultimi quindici anni si è scambiato il testimone all’interno dei vari governi (uno usciva e l’altro entrava, talvolta proprio nel medesimo incarico).

Di fronte a tutto questo, le parole di Don Fabrizio principe di Salina paiono perfino poca cosa e la nostra Italia del terzo millennio pare ferma ancora alla Sicilia dell’Ottocento.

La fiera del disorientamento

Sebbene, come si suol dire, al peggio non ci sia mai fine, lo spettacolo a cui ci è dato di assistere in questi giorni è veramente sconcertante. Tre parti politiche hanno in mano il futuro del Paese, ma nessuna di loro parla neppure lontanamente né del Paese, né del suo futuro: tutte, infatti, sono impegnate in una estenuante e paradossale partita a scacchi per far fuori le altre due parti. Una, poi, è addirittura alle prese con una sorta di roulette russa in solitaria, guidata da un leader che si limita a cambiare compulsivamente mano alla pistola e tempia su cui puntarla.

Ma non è ancora nulla: il resto del paese, dai giornalisti ai cosiddetti “esperti”, fino ai cittadini “semplici” elettori, sembra non capirci più niente.

Le spiegazioni delle mosse incongrue e inconsulte dei politici o sono altrettanto inconseguenti, o si basano sulla  facile, troppo facile demonizzazione della classe politica stessa; chi solo due mesi fa ha votato una parte, ci ha ripensato e ne vuol votare un’altra; chi pochi giorni orsono era allo sbando, ora canta vittoria, magari solo per un altro paio di giorni; e anche chi era rimasto più o meno fuori dai giochi (la settimana scorsa ero presente all’incontro nazionale di quel movimento della società civile “scippato” del proprio lavoro da Ingroia) al massimo sa produrre analisi critiche, prive però di concreti elementi costruttivi.

Siamo un paese allo sbando, e non per colpa della classe politica, ma perché esprimiamo una classe politica che è lo specchio del popolo che la elegge. Un popolo che non solo evade le tasse (tutto, anche se in misura certo diversa) e lascia l’auto sul marciapiede, non solo né va a teatro né legge libri e né giornali, non solo recrimina cercando sempre un colpevole che non sia lui stesso (emblematico che solo il venti per cento degli aventi diritto si sia espresso consultivamente a Taranto su cosa fare dell’Ilva), ma che soprattutto è, come la sua classe politica, in piena confusione.

Meriterebbe almeno fermarsi un momento, arrestare il compulsivo votarsi ora al santo di destra, ora a quello di sinistra, ora a quello “nè-di-destra-né-di-sinistra”, e domandarsi il perché di questo spaventoso disorientamento.

Certo, la risposta non la troveremmo in un momento, perché il mondo contemporaneo è complesso. E, molto probabilmente, non sarebbe una risposta gradita ai più – e questa è una delle ragioni per cui nessuno la cerca veramente, specie tra i politici, che vivono di consenso e perciò, siano in buona o in cattiva fede, devono conpiacere gli elettori, pena il suicidio politico.

Credo tuttavia che la direzione della ricerca sia, almeno quella, abbastanza chiara: siamo disorientati perché indisponibili a un autentico, radicale cambio di paradigma.

Convinti da decenni di essere su una comoda e sicura autostrada che ci porterà diritti al mitico paese di Bengodi, adesso che di fronte alla nostra auto lanciata a gran velocità si para un’interruzione dietro la quale intravediamo un ponte crollato, rifiutiamo di fermarci e proseguire a piedi per i campi, e continuiamo a premere l’acceleratore, alternarnando al contempo sterzate e bruschi colpi di freno. E la testa ci gira.

A tutti, non solo ai “maledetti” politici. Vogliamo prenderne atto, prima di precipitare?

 

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E il nuovo continua ad avanzare…

Compiva quattordici anni – e forse saliva per la prima volta su un motorino – l’astro nascente della politica nostrana, quando Michele Serra ironizzava sulla figura retorica più in voga del momento scrivendo Il nuovo che avanza. Correva l’anno 1989: non era ancora caduto il muro di Berlino; l’URSS era viva e, tutto sommato, ancora vegeta; il motorino del Nostro era forse un Ciao (lo stesso di D’Alema, visto che il primo esemplare data 1967); c’erano ancora la Prima Repubblica e il sistema proporzionale; Berlusconi era solo un industriale di successo e Beppe Grillo faceva lo showman al festival di Sanremo….

Ventiquattro anni dopo le cose sono cambiate, molto cambiate: la globalizzazione, la crisi dello Stato-nazione, tangentopoli, la scomparsa dei partiti storici, vent’anni di politica-spettacolo, la finanziarizzazione e il suo crollo, la casta e l’antipolitica…. Certo non è cambiato tutto, ma molto sì.

Una cosa è però rimasta intonsa: la retorica del nuovo. Oggi come allora per migliorare quel che non va non si prova a definire meglio le cause dei guasti, non si propongono cose diverse spiegandone le ragioni, non si discute delle cose e si condividono scelte: no, si cerca “il nuovo“.

Niente di nuovo sotto il sole, dunque: il nuovo è in realtà un concetto vetusto, appartiene alla Prima Repubblica e all’epoca dei Due Blocchi.

Il nuovo è vecchio.

Questo nuovo così obsoleto e usurato pare oggi incarnarsi in due concrete figure: il Movimento 5 Stelle, ondata di rappresentanti politici (ovviamente) nuovi, che vanno a sostituire la (ovviamente) vecchia classe “corrotta e privilegiata”; il giòvane astro nascente del PD – Matteo Renzi – proprio ieri definito nientemeno che da Jovanotti (sic!) “il nuovo” e percio, ça va sans dire, da votare come salvatore della patria.

Lasciamo qui da parte la prima incarnazione contemporanea del venerando “nuovo”, invitando il lettore – se proprio non vuol cercarsi un buon libro di storia contemporanea – a dare un’occhiata alla pagina di wikipedia su un altro movimento, non proprio recentissimo (risale agli albori della Repubblica) ma dalle affinità a dir poco clamorose con M5S: l’uomo qualunque. E passiamo invece alla seconda incarnazione, quella del Rottamatore e frenetico frequentatore di trasmissioni televisive.

In quanto “nuovo”, come s’è detto, il Nostro è ipso facto già decrepito: la politica del nuovo è vecchia (almeno) di venticinque anni, non se ne può più. Ma potremmo aggiungere una lunga serie di vetustà al profilo di questo innovatore: non c’è molto di nuovo nel giungere alla politica senza far altro nel mondo che il dirigente nell’azienda di famiglia (senza peraltro aver fatto prima alcuna gavetta da “diretto”); né è molto diverso da quello della “vecchia casta” il percorso che lo vede  catapultato alla Presidenza della Provincia a ventinove anni – cinque dopo la laurea e anche qui senza altra gavetta che due anni di coordinamento cittadino e uno di segreteria provinciale della Margherita. Non è vero che “nessuno nasce imparato”: per dirla con Totò, lui lo nacque.

Uscendo dalla vecchia retorica del nuovo e andando alle cose, non è per nulla rassicurante la figura di un signore che si approssima a dirigere il Paese dopo una carriera di dirigente iniziata senza esser né mai stato lavoratore subordinato, né aver preso parte “sporcandosi le mani” alla vita lavorativa e produttiva della società che vuol dirigere. Chi sa fa, chi non sa insegna. Oppure dirige.

Ma dirige dove, poi? A giudicare dalle esternazioni di questi giorni, dove lo (e ci) porterà la corrente.

L’altroieri, infatti, l’arcaico nuovo che continua ad avanzare ha sostenuto che la politica, in questi giorni in empasse, stia perdendo tempo e non si renda conto che “oggi il mondo ci chiede di muoverci a una velocità doppia”. Domando: ma lui si rende conto che un politico (qual dice di voler essere) quel mondo lo deve governare e, quindi, non può sottostare supinamente alle velocità che il mondo stesso gli impone? Non si rende conto che proprio l’eccessiva velocità è parte attiva del problema? Una cosa che si potrebbe sostenere anche filosoficamente, rifacendosi alle critiche al paradigma della tecnica che da Heidegger sono arrivate a Galimberti, passando per Horkheimer e Günther Anders, oppure riprendendo i temi del pensiero ecologico.

E ancora, non è certo peregrino ipotizzare che in una società che si sia liberata dalla folle velocità che ci trascina ogni giorno si viva meglio di oggi, probabilmente anche con minore ricchezza in termini di PIL, aprendo così scenari sociali ed economici – che è come dire politici – che sembrano invece mancare. Ma il Nostro non può pensare a rallentare, né tantomeno fermarsi a pensare, perché il nuovo ha fretta di avanzare e, del resto, la velocità è il suo forte: Presidente appena cinque anni dopo la laurea…. Dove lo trovava il tempo per leggere Horkheimer e Anders, Latouche e Hösle?

Non basta. Solo qualche giorno prima, monologando in abito giovanilista in una delle trasmissioni più discutibili della discutibile (sotto)cultura televisiva imperante, il datato svecchiatore ha affermato che “sarà un grandissimo momento quando questo Paese sarà fatto dalle persone che vanno avanti con la forza del proprio sudore, anche prendendo qualche botta. A me è capitato di perdere e può essere anche bello”.

Notare il passaggio: prima si parla di “fare, con sudore”, poi si parla di “perdere”…. Perché? Quando si costruisce qualcosa non si gioca una partita, non c’è un nemico e neppure una sfida da “vincere”: si lavora, si fanno cose passo passo, con un progetto ben meditato, qualche volta lineare, qualche altra ardito, con la pazienza e la serenità di portarlo a fondo. Ma forse questo il Rottaminnovatore non lo sa, non avendo mai lavorato con quello spirito e con quell’umiltà, visto che lui di mestiere ha fatto solo il dirigente, con un obiettivo fisso in testa: arrivare al posto dirigenziale superiore. Ed essendo i posti di dirigenti pochi e con molta concorrenza, ecco che, anche quando parla di “lavoro”, il frusto rinnovatore pensa sempre a “competere”. Anche qui, non sa che la competizione, come categoria generale, è ormai anacronistica, che competere oggi significa per i più caricarsi di frustrazioni. Non lo sa perché ha sempre gareggiato in ambiti privilegiati e perchè, tutto preso dalle sua gare, neppure ha avuto il tempo per informarsi o, non sia mai, per riflettere: tempo perso in un mondo che gira “a velocità doppia”.

E allora, ecco che resta solo la retorica del “nuovo”. Perché il contenuto non c’è, o è inadeguato. Vecchio? Non so e non m’interessa. Politicametne inadeguato, adatto a Jovanotti (che, per inciso, all’epoca de Il nuovo che avanza era anche lui, come Grillo, a Sanremo…) e a Barbara Berlusconi, ultimi sponsor in ordine di tempo del Nostro salvinnovatore della Patria. Dal quale, per dirla con Heidegger, solo un Dio ci può salvare.