Piuttosto per perdere tempo con i commenti sul risultato del referendum, preferisco guardare avanti fin da subito e ripartire da una riflessione fatta altrove – in modo necessariamente troppo frettoloso – a partire dalla morte di Fidel Castro e dai riti che essa ha innescato.
Personalmente sono sempre stato indifferente nei confronti sia di Castro, sia di Cuba: non amo le rivoluzioni (alle quali seguono puntualmente le controrivoluzioni), non mi piacciono i rivoluzionari (fatalmente troppo istrionici e narcisisti), soprattutto mi tengo lontano dall’influenza delle “figure carismatiche”, che con il loro fascino distraggono dall’osservazione attenta delle cose a loro collegate. Di conseguenza, non ho alcun interesse a parlare né di Castro – al quale riconosco molte colpe ma anche il merito di essere un “duce” assai diverso dai tanti che hanno popolato la storia latinoamericana – né di Cuba – che, per quanto poco la conosco, è senz’altro un paese privo di alcune libertà fondamentali, ma che permette di godere di alcuni diritti che ormai mancano anche in Italia, quale un’assistenza sanitaria gratuita ed efficiente.
Torno invece a osservare con forte criticità il culto della personalità che sta alla base delle “nostalgie” seguite alla scomparsa del lider maximo. Capisco che a Cuba si facciano funerali con folle oceaniche, era uno “di famiglia”, ma non che questo accada da noi, né che si parli di “fine di un’epoca” o ci si interroghi su cosa succederà adesso. I singoli hanno senza dubbio i loro meriti nel far accadere gli eventi, ma se si identificano con gli eventi c’è qualcosa che non va, qualcosa che mostra come si sia ancora lontani da quello stato di autonomia e protagonismo popolare che dovrebbe essere uno degli stigmi della sinistra.
La figura del leader – che d’ora in avanti nominerò nella sua traduzione italiana, che è “capo” – è arcaica e rimanda a consessi sociali familistici, bellicosi, privi di cultura, nei quali dominavano paura e sottomissione, impotenza e cieco affidamento. Ancora di più, quella figura rimanda alla nostra comune infanzia, quando – giustamente, essendo privi di conoscenze, esperienze, maturità, rapporti sociali – abbiamo tutti temuto la realtà e ci siamo rifugiati nelle braccia di chi era più grande di noi, i nostri genitori. E’ per questo che la maturità di una società e di un popolo si misura anche nella sua indipendenza dalla figura del capo e che una corrente politica che abbia di mira questa maturità, qual è la sinistra, deve liberarsi da questa figura.
Intendiamoci, non sto dicendo che non servano figure che si prendano la responsabilità di dirigere e, talvolta, anche di scegliere autonomamente: funzionalmente tali figure sono per me indispensabili. Quel che voglio dire è che una tale figura deve avere tra le sue (molte) qualità anche quella della invisibilità: deve essere un uomo che sa svolgere bene le proprie funzioni, non un insostituibile; deve essere un sintetizzatore delle idee di tutti, non un creatore; deve saper lavorare bene, ma sempre nell’ombra. Altrimenti, per quanto possa lavorare bene, farà danni: inibirà le forze ideative della moltitudine – che di tali forze ne ha incomparabilmente più di lui – e schiaccerà, volente o nolente, volontà e desideri di gran parte di essa, azzerando la partecipazione, che è l’essenza della democrazia.
Ora, quando tuttociò avvenga per ben precise e intenzionali ragioni – perché si vuol davvero schiacciare la moltitudine, come avviene in certi totalitarismi (per esempio in America Latina), o perché si vuol usare le moltitudini ai propri scopi, come avvenuto nei grandi totalitarismi del Novecento – per quanto si possa giudicarlo negativamente, può aver senso; ma quando invece avvenga “per il bene” di quelle stesse moltitudini che si inibiscono e schiacciano, allora si cade in una piena contraddizione: come i pessimi genitori che continuano a decidere cosa sia buono per i propri figli anche quando questi dovrebbero farlo da soli, magari pagando il prezzo dei loro errori e imparando da essi, i capi si ergono ben al di sopra del loro ruolo funzionario e si fanno elite demiurgica. E con ciò si spostano dall’altra parte – a destra – ne siano o meno consapevoli.
Questa considerazione partiva da Castro, ma come ho detto non mi interessa Fidel, che ho preso solo come esempio di un fenomeno generale. Mi interessa di più proiettare la riflessione sul nostro immediato futuro. Abbiamo infatti appena “perso” un capo e visto cadere una riforma che mirava a instaurare un sistema istituzionale incentrato sul capo: ebbene, chiunque sia di sinistra non può che gioirne e chi non si senta di gioirne ha di che interrogarsi sulla sua reale posizione politica. E chi sia di sinistra ha a questo punto il dovere di star bene attento per evitare che ciò si ripeta: la sinistra ha senz’altro bisogno di qualcuno che la diriga e che abbia le capacità per farlo bene, ma esso deve essere solo il suo portavoce e il rappresentante di quei contenuti politici che gli elettori di sinistra avranno messo a punto e continueranno a rielaborare, cooperativamente e assieme ai loro rappresentanti istituzionali – i parlamentari. Un capo che voglia decidere di testa sua, che non sia disposto ad ascoltare e a mediare, che sia sempre sulla breccia dei media e usi il suo carisma personale per catturare l’attenzione, non è e non può essere di sinistra, perché ne viola alcuni dei valori fondamentali: l’autonomia, la libertà di pensiero e la possibilità di essere protagonisti di tutti i cittadini.
Da qui dobbiamo ripartire, se vogliamo che una sinistra ci sia e che torni a votare quel 35% di elettori che non frequenta più le urne da quando si può votare solo un capo e non un progetto politico. Da quando, cioé, la sinistra non c’è più.