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L’Europa dei Balcani – 2. Divisioni civili e identità immaginarie: uno specchio per l’Italia

Una delle cose che balzano agli occhi visitando i Balcani in modo non meramente turistico, come ho avuto modo di fare nel mese di agosto (qui il resoconto del viaggio a cura di Michele Nardelli), è la tensione ancor oggi presente tra le popolazioni che vi abitano. Quella tensione che vent’anni fece da combustibile per le guerre e i genocidi che spazzarono via la Jugoslavia e, con lei, diverse decine di migliaia di suoi ex cittadini.

L’origine di quella tensione viene spesso addebitata ad antiche ragioni culturali e religiose, oltre che ad atavici tratti antropologici delle popolazioni locali. Com’è noto, su quei territori relativamente ristretti convivevano (e convivono tutt’ora, nonostante la tragedia della guerra) popolazioni di fede cattolica, ortodossa, ebraica e musulmana, con tradizioni e identità fortemente contrastanti. Basti pensare al “mito identitario” del popolo serbo, che rimanda al Principe Lazar, morto nella battaglia di Kosovo Polje, combattuta (e persa) il 28 giugno 1389 contro i turchi – e “turchi” vengono chiamati ancor oggi tutti i “bosniacchi”, i musulmani di Bosnia.

Nel nostro viaggio quelle tensioni le abbiamo toccate con mano, incontrando persone la cui vita ne è stata lacerata: serbi schieratisi con i musulmani, oppure contrari al nazionalismo e all’identità antiturca; bosniaci musulmani la cui famiglia è stata sterminata e che ancor oggi non riescono ad avere un riconoscimento ufficiale dei loro morti; croati postisi a difesa dei bosniaci e per questo considerati traditori. Abbiamo anche respirato il pesante e vivissimo ricordo di ciò che sono state capaci di produrre, quando abbiamo attraversato l’ancora spettrale città di Vukovar, o cercato invano il capannone e le fosse comuni del lager di Omarska (presso Prijedor, 3375 vittime), celati forse ad arte dai lavori della locale azienda mineraria (Arcelor Mittal, la stessa che è adesso proprietaria dell’ILVA di Taranto), oppure ancora quando abbiamo sostato in mesto silenzio presso il memoriale del genocidio di Srebrenica, 8372 morti musulmani per mano dell’esercito serbo, deportati sotto gli occhi impotenti delle forze ONU olandesi (chi volesse riviverne la drammaticità può leggere il bel romanzo storico di Marco Magini, Come fossi solo). Tensioni vere, dunque.

Ma cosa significa, in questo caso, “vere”? Certo significa che quella distanza tra culture (ha davvero senso, qui, parlare di “etnie”?) non era mai stata colmata, a dispetto degli sforzi di Tito – peraltro non sempre basati sul buon senso. Significa anche che quella differenza ha reso e rende tuttora difficile la convivenza, perché la convivenza tra diversi è sempre difficile e lo è ancor più quando il gioco economico si fa duro – come avvenne alla dissoluzione della Jugoslavia e com’è adesso, con una ricostruzione che pare non completarsi mai – e la cultura non abbonda – infatti nella colta Sarajevo i diversi rimasero assai più uniti. Ma significa anche che quelle “differenze” sono, diciamo così, pienamente reali e che sono state le cause scatenanti del conflitto? Qui la risposta appare meno lineare.

C’è infatti chi sostiene che alla base del conflitto balcanico non ci fossero affatto le differenze culturali e religiose o le identità contrapposte di popoli in realtà piuttosto omogenei – si pensi alla lingua, quel serbo-croato anche bosniaco che è meno distinguibile di quanto non lo siano il bergamasco dal siciliano ma che, come ci ha spiegato una delle nostre interlocutrici, oggi invece ci si sforza di distinguere fin dai libri di scuola.

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Srebrenica, Memoriale

Paolo Rumiz, uno che il mondo balcanico e la guerra che lo ha attraversato li conosce bene, nel suo Maschere per un massacro sostiene per esempio che alla base di tutto ci fosse solo il riassestamento del potere malavitoso fatto di politici e loro “clientele”, che al mutarsi degli equilibri con la fine di quel “collante” che era stata la Jugoslavia titina vedevano sgretolarsi le loro rendite di posizione e dovevano riorganizzarsi, in qualsiasi modo. E che fece leva sulle parti più rozze e manipolabili della popolazione, vale a dire i contadini e gli allevatori di montagna. Una lettura che troverebbe conferma nell’immancabile presenza in ognuna delle situazioni più crude e drammatiche (da Vukovar a Srebrenica, passando per Prijedor e Sarajevo) delle “tigri” di Arkan – bande di irregolari, affiliate agli eserciti perché più “efficienti” – comandate da Željko Ražnatović, detto appunto Arkan, che non era né un politico, né un militare, ma un vero e proprio gangster internazionale (fatti di sangue anche in Italia e carcere in Olanda prima del successo nel contrabbando), diventato poi capopopolo e “comandante” a partire dalla sua attività negli ultras della Stella Rossa, la squadra di calcio di Belgrado.

Più elaborata la lettura di Rada Ivekovic, che in Autopsia dei Balcani mette sì in gioco le identità, ma non per il loro valore intrinseco – sia esso storico, oggettivo o assoluto – bensì per la necessità umana e sociale di averne una, specie in periodi di rapidi e drammatici cambiamenti. La perdita dell’identità unitaria jugoslava, permeata di valori quale la giustizia e l’internazionalismo (il Paese era leader mondiale dei “non allineati” e gli jugoslavi, diversamente da altri cittadini di paesi comunisti, viaggiavano liberamente per il mondo), fu drammatica per molti, inclusi gli intellettuali (si vedano le belle pagine della croata Slavenka Drakulic, nel suo Balkan Express). Ma mentre questi ultimi cercarono di reagire attraverso lo spirito critico (insufficiente peraltro, come da molti riconosciuto, per riconoscere la pericolosità di personaggi ritenuti a lungo “troppo ridicoli” per poter nuocere), gli altri si rifugiarono progressivamente presso le identità “etniche”, in ragione inversa alla loro cultura.

Resta il fatto che per gran parte degli studiosi tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’opera manipolativa di chi in quegli anni governava quei paesi – i vari Slobodan Milosevic, Radovan Karadzic e Franjo Tudjiman – o vi operava sul piano della cultura di massa – primi tra tutti lo scrittore Dobrica Ćosić, ispiratore del nazionalismo serbo, e la scienziata Biljana Plavšić, sostenitrice di un nazionalismo razzista che esaltava ogni violenza sui musulmani. Come era accaduto nel nazifascismo e in moltissime altre circostanze storiche, anche qui fu effettuata una “nazionalizzazione delle masse” – dal titolo del famoso libro di George L. Mosse, tra i primi a studiare il modo in cui tanto Hitler, quanto Mussolini avevano “creato” un “popolo” e dato ad esso un’identità posticcia attraverso la rielaborazione di miti arcaici e moderni, celebrati con appositi riti.

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Srebrenica, immagini delle fosse comuni

Identità arcaiche, per non dire immaginarie, usate ad arte per far sì che la moltitudine differenziata di cittadini si frangesse in “etnie” e “popoli”, da mettere poi gli uni contro gli altri come mai prima avrebbero pensato (a Prijedor, cittadini serbi ortodossi fecero strage dei i vicini di casa bosniaci musulmani con i quali fino a pochi mesi prima non avevano alcun conflitto) perché, come diceva Hermann Göring, “è naturale che la gente non voglia la guerra; non la vogliono gli inglesi, né gli americani, e nemmeno i tedeschi. Si capisce. E’ compito dei leader del paese orientarli, indirizzarli verso la guerra. E’ facilissimo: basta dirgli che stanno per essere attaccati, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e perché mettono in pericolo il paese”.

Nei Balcani ha funzionato, e ha prodotto una catastrofe dalla quale si fatica a rialzarsi (per una paradossale ironia della storia, oggi Belgrado viene acquistata pezzo a pezzo, a prezzo di saldo, proprio dai musulmani, quelli provenienti degli Emirati Arabi…). E qualcosa di quel che è successo là richiama alla mente ciò che sta succedendo oggi da noi: la rivendicazione di una identità, per esempio, con i suoi richiami alle “radici religiose” della cultura nazionale, quasi che in Italia non ci siano da sempre milioni di atei e centinaia di migliaia di valdesi, di ebrei, di ortodossi, di musulmani; l’uso di questa distorta identità come arma rivolta contro quei “diversi” – per cultura, per identità, persino per etnia – che “non sono nati in Italia”, verso i quali, fino a pochi anni orsono, ci si vantava di non fare alcuna discriminazione; il nazionalismo, ribattezzato “sovranismo”, con la pretesa di un’autonomia e un potere da contrapporre alla decisionalità condivisa con i nostri fratelli europei, che si trasformano sempre più in odiosi avversari (i golosi tedeschi, la perfida Merkel, il presuntuoso Macron); le grossolane figure politiche che dominano la scena, egocentriche e presuntuose (Renzi), arroganti e bullesche (Salvini), stonate e impreparate (Di Maio), o che manipolano a suon di composite quanto vuote citazioni il pensiero della gente (Veneziani, Fusaro, tanto giornalismo d’assalto); soprattutto, il rifiuto, anzi persino la condanna della cultura, della complessità, dello stesso pensiero critico e di tutto ciò che non stia o di qua, o di là, che non rientri nello schema binario amico/nemico – uno schema che abbatte ogni possibilità non solo di dialogo, ma anche di riflessione, di comprensione, di mediazione.

In Italia adesso, come nei Balcani allora, tanti sono i segnali che fanno pensare all’incipienza della guerra. Che non è conflitto, sano e necessario momento di qualsiasi dialogo che vada a fondo e sia sincero ma che non sconfina nella denigrazione, nella delegittimazione, nell’esclusione: è violenza – prima psicologica e verbale, poi fisica e armata – dell’uno sull’altro. Violenza resa necessaria dalla debolezza di posizioni – identitarie, politiche, etiche – prese solo per interesse crasso e diffuse approfittando dell’ingenuità e dell’inferiorità culturale.

Per evitare tutto questo, per far sì che non si verifichi anche da noi qualcosa di almeno simile a quel che è successo nei Balcani – ed è inutile esorcizzarne la possibilità distinguendosi da quelle terre e quelle genti, in realtà nostri fratelli prossimi – basterebbe mettere in cima alla scala delle priorità non l’identità, non la crescita, e nemmeno l’occupazione o il lavoro (bene comune e risorsa scarsa che non si può “creare”, ma solo condividere), bensì il pensiero critico e il dialogo, la condivisione e il quieto vivere. Quelle cose, insomma, che gli studi socioantropologici indicano come i principali indicatori della felicità e del benessere. Pochi, troppo pochi sembrano però rendersene conto.

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