“Quando, al termine del suo processo di analisi, la filosofia si trovi concordare con il senso comune, non ha che da rallegrarsene”, scriveva a un dipresso Hegel, “perché sarà un’ulteriore conferma della correttezza del suo procedere”.
Mi sono sempre trovato d’accordo con queste parole, anche se ho sempre temuto che finissero per giustificare l’aggiramento e l’elusione dell’analisi critica dell’esistente, spesso costituito proprio dal senso comune stesso. Una trappola, questa, nella quale i “filosofi” sono caduti spesso, e continuano a cadere.
E’ il caso di Diego Fusaro, che qualche giorno fa è intervenuto in merito alla “scandalosa” vignetta disegnata da Vauro alla morte di Casaleggio, che riporto sotto.
Mi esimo qui dal prendere partito in merito alla vignetta: non è il mestiere del filosofo – casomai può essere quello dell’educatore, dell’ideologo, del difensore dei valori di qualche “istituzione” (formale o informale che sia). In quanto filosofo voglio sono cercare di capirne il senso.
E il senso mi pare sia quello di fare satira politica su un vivo in relazione ai suoi (presunti) rapporti con un suo collaboratore e amico, una vicenda del quale fornisce l’occasione della vignetta. Fin qui tutto normale: è quel che accade in ogni situazione di satira politica.
Il problema è che, in questo caso, la vicenda che fornisce lo spunto è la morte dell’amico e collaboratore del satireggiato: sulla morte e sul lutto, dicono in molti, non sarebbe legittimo né ridere, né scherzare, né dunque fare satira.
Ma è vero? A me sembra proprio di no.
Infatti, non c’è un modo univoco di interpretare la morte e di porsi di fronte a essa, né c’è un modo in cui sia doveroso interpretarla o porsi. E se ciò vale per la morte in generale, come fenomeno dei viventi – ci sono culture nelle quali si piange la morte dei congiunti per settimane, altre nelle quali si festeggia con canti e libagioni assieme agli amici – ancor più vale come evento individuale, come morte di “questo specifico vivente”: in chi non ha mai prevalso il sentimento positivo di fronte alla morte di uomini pericolosi come serial killer, fanatici terroristi, e via dicendo? Chi piange la morte del proprio padre né più e né meno che la morte del padre di uno sconosciuto? Dunque, perché mai una persona – in questo caso Vauro – non dovrebbe essere libera di esprimersi secondo il proprio modo di interpretare la morte e prendere spunto da un evento del genere per fare satira su un vivo?
Una ragione potrebbe essere il rispetto del sentire altrui: sapendo che altri interpretano la morte in modo diverso e che certe considerazioni potrebbero ferirli, per rispetto si dovrebbe evitare di farle.
Il problema è però che il rispetto è biunivoco: se da un lato il rispetto impone di non dire, dall’altro il rispetto impone di lasciar dire. E questo dovrebbe farci riconoscere che siamo di fronte a un irresolubile conflitto tra valori diversi – da un lato quello della libertà di espressione, dall’altro quello della sacralità della morte – nessuno dei quali è “assoluto”. Ragione per cui è sensato solo accettare quel che viene senza scandalo e – soprattutto – senza vantare una superiorità dell’uno sull’altro.
Una seconda e subordinata ragione potrebbe essere l’immoralità del modo di fare satira su certi valori: se Vauro avesse ironizzato a partire dalla morte di Casaleggio, ma non fosse disponibile a farlo a partire da quella di persone a lui care o dalla propria, violerebbe un principio fondamentale che fa rientrare un comportamento in una norma etica: il principio di universalizzazione. Tuttavia, questa ragione è smentita da una seconda vignetta del disegnatore, che riporto sotto.
Con questa vignetta Vauro ha semplicemente dimostrato che per lui la morte non è sacra – né quando è morte di persone che non gli sono care, né quando è la propria – e che pertanto, nel suo sistema di valori, ci si può scherzare sempre e comunque. Il suo comportamento è etico e perciò va rispettato, corrisponda o meno al nostro personale sentire. Chi non lo faccia (che non significa condividere o non segnalare il proprio disagio, ma solo non riconoscerne liceità e valore) sta surrettiziamente assolutizzando il proprio valore, con l’aggravante di farlo in riferimento al senso comune, cioè a quella cultura di massa in cui accidentalmente viviamo e che – pur essendo probabilmente maggioranza – non ha fondamenta più forti di quelle da essa diverse.
E’ questo che sembra non comprendere Diego Fusaro, che su Lettera 23 del 19 aprile fa sì riferimento ai due citati “rispetti” in conflitto, ma cerca poi di sostenere la superiorità di uno dei due:
Di fronte a un morto occorre seppellire l’ascia di guerra, non foss’altro in ragione del fatto che il morto è morto e non ha facoltà di rispondere e di difendersi. Non è un principio difficile da capire, peraltro.
Purtroppo per Fusaro, che il principio non sia difficile da capire non ci dice nulla in merito né al suo fondamento, né alla sua condivisibilità: perché mai, anche se non può difendersi, sarebbe doveroso “seppellire l’ascia di guerra” di fronte a un morto? Lui è morto, ma le sue idee, la sua eredità, gli effetti della sua azione restano vivi. E, si badi, mi sto riferendo al principio generale e non al caso specifico – nel quale, come si diceva, la critica non era neppure rivolta al morto ma al suo amico, vivo, vegeto e attivo in politica.
Per rafforzare il proprio inconsistente argomento, Fusaro non trova di meglio che operare con un artificio retorico:
la “trovata” di Vauro di fare uscire la sua vignetta nel giorno della morte di Casaleggio è un’offesa e una mancanza di rispetto: verso Casaleggio, ma poi anche verso Vauro stesso, che ha offeso la sua stessa intelligenza. Come si dice, ha perso una buona occasione per tacere.
Il grassetto è mio e segnala il cuore dell’artificio: perché Vauro non ha affatto offeso se stesso – come dimostra il fatto che pochi giorni dopo ha usato verso di sé il medesimo trattamento, mostrando la sua buona fede etica – e tantomeno ha offeso la sua intelligenza – la vignetta, piaccia o no, testimonia che è tutt’altro che stupido. A meno che non si intenda con “intelligenza” qualcosa che ha a che fare con il “valore” – cosa molto, molto opinabile – e, per sovrappiù, si ipotechi come “valido” il valore del “rispetto per i morti” e come “invalido” il valore “indifferenza per la morte in quanto evento tra gli altri”. Ma una tale ipoteca è tutta da dimostrare e qui, nella forma inesplicita in cui la pone Fusaro, è del tutto illegittima.
Che questo sia l’impianto – retorico e “non argomentativo” – di Fusaro lo conferma la conclusione: dopo aver sostenuto la propria posizione con un esempio di “autorità accademica” (il comportamento del filosofo Leibniz, che non pubblicò la confutazione del suo Saggio sull’intelletto umano di Locke a seguito della morte di questi, quasi che l’essere stati grandi pensatori garantisca sulla imprescindibile correttezza e doverosità di tutte le loro azioni…), Fusaro ribadisce che una tale cura
Si chiama rispetto. Forse anche umanità.
Rispetto, certo, ma – com’egli stesso scriveva in precedenza – è rispetto anche quello che si deve a chi, guidato da principi diversi, si comporta in altro modo. Quanto all’umanità, spiace dire che siamo di nuovo davanti a un artificio retorico: il concetto di “umanità” dipende infatti già dai valori che si assumono, ragione per cui non ce n’è uno solo ma ne esistono tanti, quanti sono i sistemi di valore (alla fin fine, ognuno di noi ha un concetto di “umanità” almeno un po’ diverso da ciascun altro). Far surrettiziamente passare che non sia così è pericoloso, perché socchiude le porte al totalitarismo – che, come sappiamo, è sempre molto pronto a infilarsi in ogni spiraglio.
In realtà – la realtà complessa degli uomini – si è “umani” quando si è non violenti e quando si è violenti, quando si è tolleranti e quando si è intolleranti, quando si rispettano i morti e quando non li si rispettano: cosa sia “umano” va valutato volta per volta e confrontandosi apertamente con chi la pensa diversamente. Senza vantare superiorità previe di un valore su un altro. Il resto è propaganda, semplificazione manipolatoria, accrescimento della confusione. Una cosa che un filosofo non dovrebbe fare. In caso contrario, come dice Fusaro di Vauro,
ha perso una buona occasione per tacere.