Archivio mensile:Maggio 2022

Io, pacifista che non si oppone all’invio di armi

Dottrina, o tendenza, che rifiuta e condanna il ricorso alla guerra e a ogni tipo di scontro armato o di aggressione come mezzi per risolvere le controversie internazionali, e vuole dimostrare la necessità del mantenimento o ristabilimento della pace tra i popoli, da raggiungere solo attraverso trattative o arbitrati. Anche il movimento che diffonde tale dottrina e vuole ottenerne l’attuazione pratica.

Così il vocabolario Treccani online definisce “Pacifismo”, un termine oggi sulla bocca di tutti, visto che la guerra, lungi dall’essere stata evitata, l’abbiamo sulla porta di casa e ci coinvolge indirettamente tutti.

Ad ascoltare commenti, leggere i giornali e seguire i media, risulta chiaro che non tutti i nostri simili siano pacifisti. Come del resto è ovvio: da che mondo è mondo la guerra c’è sempre stata e basta un po’ di riflessione antropologica per ritenere quantomeno improbabile che scompaia mai. Il che non è affatto una buona ragione per non essere pacifisti: seguire una dottrina che si ritiene giusta è un ideale regolativo, e poco importa che non si possa realizzarne interamente l’obiettivo.

Infatti, io sono – e sono sempre stato – un pacifista.

Non lo sono invece, per certo, né il governo russo, né i dirigenti della Nato, né, probabilmente, i tanti che in TV o sui giornali parlano di “vittoria” o “annientamento di Putin”, rallegrandosi delle battaglie a favore dell’esercito ucraino o degli affondamenti di navi russe. I primi, banalmente, non lo sono perché la guerra l’hanno scatenata. I secondi, forse un po’ meno banalmente, perché di mestiere attendono che le guerre esplodano per combatterle, ancorché per difesa: non hanno scelto di fare i diplomatici per evitare che scoppino, o i corpi di interposizione non violenta per opporsi a mani nude a chi la scatena, bensì di risponderle militarmente (sebbene sia convinto che non pochi di loro preferiscano che le guerre non scoppino, così da potersene restare tranquilli a fare innocue esercitazioni). Gli ultimi, infine, non lo sono perché si sono fatti prendere dal gioco vecchio come il mondo e neppure si rendono conto della sua sconcezza.

Per quanto mi riguarda, da pacifista, posso dire che finché ci saranno armi e paesi armati con chiare intenzioni aggressive – come è il caso della Russia, della Corea del Nord, dell’Iraq trent’anni fa e di tanti altri – ritengo assolutamente necessario che esistano eserciti difensivi, quindi anche apparati come la Nato. Della quale non mi piacciono tante cose – quanto sarebbe meglio un sistema autonomo interamente europeo! – ma che, in generale, ritengo un insostituibile strumento al servizio di Paesi pacifici, nel caso che questi vengano aggrediti da Paesi non pacifici. L’alternativa mi pare inaccettabile fino all’assurdo: lasciare che qualche prepotente, o perfino pazzo, si armi e imponga la propria volontà a chi è pacifico. Certo, perseguendo la strategia pacifista si può ridurre questa possibilità: ma si può essere così sicuri che la si elimini del tutto? Oggi certo no; in futuro, si vedrà.

Oggi, appunto. Oggi un Paese – o almeno un gruppo dirigente – non pacifista e prepotente ha scatenato una guerra di conquista, violando i diritti di autodeterminazione di quaranta milioni di persone: gli ucraini. Abbiamo un aggressore e un aggredito, dei violenti e delle vittime. Qual è il compito del pacifista? Sicuramente quello di condannare la guerra e di lavorare per fermarla. Ma certo, nel frattempo, anche quello di occuparsi della difesa delle vittime.

Sul primo piano la risposta pacifista c’è, ma è fatalmente molto debole: perlopiù si riduce ad appelli e manifestazioni. Leciti, anzi, doverosi e meritori, ma di fatto quasi inutili: perché mai i responsabili della guerra – la classe dirigente russa – dovrebbero ascoltarli? Non hanno alcuna ragione per farlo, sono riusciti a disinnescare perfino gli appelli di un’autorità morale e religiosa qual è Papa Francesco, contrapponendogli Kirill. Né stanno ascoltando la diplomazia – alla quale anche si appellano i pacifisti – che si è di fatto mossa praticamente ogni giorno – forse non nel modo più adeguato, ma chi siamo noi per giudicare sulla qualità degli interventi diplomatici in un frangente così complesso?

In realtà i pacifisti credo potrebbero fare di più, molto di più. Io non me ne intendo molto, non sono mai stato un attivista in questo settore, però credo che potrebbero mettere in atto pratiche di resistenza non violenta: fare le loro manifestazioni a Mosca o a Mariupol, sotto le bombe; sollecitare maggiormente l’uso delle sanzioni (che spesso invece condannano perché, dicono, solleciterebbe ancor più l’ira di Putin); recarsi in massa a fare, con i loro corpi, interposizione ai mezzi militari invasori; e, credo, molte altre cose.

Se facessero questo, i pacifisti si occuperebbero anche del secondo piano, ovvero della difesa delle vittime di questa guerra, gli ucraini. Ma solo pochi, pochissimi lo fanno. I più ignorano completamente il fatto che quaranta milioni di persone rischiano di essere costrette con la forza delle armi a fare scelte non autodeterminate, e chiedono a gran voce che si smetta di rispondere alle richieste di aiuto delle vittime, cessando di fare anche la sola cosa che, per ora, si sta facendo per loro: l’invio di armi con le quali difendersi.

Capisco la scelta “di testimonianza”, ma – in mancanza di proposte alternative – la ritengo irresponsabile, pilatesca. Non si può essere pacifisti “e basta”, né si può chiedere di fermare una guerra proprio a chi è stato aggredito, imponendogli poi di pagarne il conto. E neppure ha valore sostenere che inviando armi ci saranno altre vittime: nessuno sa, o può stimare, se ce ne saranno di più continuandola o fermandola, visto che, dopo, ci saranno certo repressioni, resistenze, violenze, oltre un governo imposto dagli invasori.

Io, da pacifista, sono contro la guerra, faccio appelli e reclamo l’intervento della diplomazia, ma voglio aiutare le vittime a difendersi. Inventiamoci tutte le difese possibili, ma adesso, in mancanza di meglio, diamo agli ucraini anche le armi. Non è una contraddizione, è una strategia pacifista che tiene conto anche della difesa delle vittime. E non mi si venga a dire che tra esse ci sono nazisti e responsabili delle stragi in Donbass: sono quaranta milioni di cittadini che della guerra sono vittime e – come dice Cecilia Strada, del cui pacifismo non si può dubitare – «si sta dalla parte delle vittime, perché tra carnefice e vittima si protegge la vittima. Indipendentemente da tutto il resto».

Per questo, da pacifista che non si oppone all’invio delle armi a scopo difensivo, ho il massimo rispetto di chi invece si oppone e soffre per le vittime ingegnandosi di cercare un modo diverso per aiutarle, così come io soffro all’idea che le armi inviate faranno altro danno e m’ingegno allo stesso modo. Non c’è una strada sicuramente giusta, per arrivare alla pace, e anche le trattative, lo si sa, si fanno anche avvalendosi del teatrino delle dichiarazioni ufficiali, che spesso non hanno nulla di vero.

Diffido invece di chi alla domanda “e le vittime come le difendiamo?” risponde “e allora il Dombass e la brigata Azov?”. Certe volte dubito perfino che quello sia pacifismo, perché non può esserci pace se si abbandonano le vittime della guerra al loro destino e perché – certo senza volerlo – un tale atteggiamento finisce per dimostrare l’indubbia efficacia della guerra come soluzione delle controversie: chi la scatena soggioga le vittime e i pacifisti glielo lasciano fare.

Il pacifismo non funziona così.

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