Archivio mensile:marzo 2013

Considerazioni inattuali: apologia del “partito”

Nei giorni scorsi in molti hanno salutato con entusiasmo l’elezione di Laura Boldrini e Pietro Grasso alle presidenze di Camera e Senato. E non c’è dubbio che l’assegnazione di tali cariche a personalità di indiscutibile valore morale e di incontestabile impegno civile, invece che a politicanti di lungo corso con rendite di posizione da far valere, sia un segnale importante per uno dei problemi oggi più gravi della nostra società: l’autoreferenza elitaria e aristocratica della classe politica.

Detto questo, e aggiunto che sul valore delle due persone non ho proprio nulla da eccepire, devo anche osservare come quell’entusiasmo mi sia sembrato unilaterale e un po’ fuori luogo. Perchè, come osservava (non in modo del tutto opportuno) Galli Della Loggia sul Corriere, la designazione di queste due persone rappresenta una rottura con il passato anche in senso negativo: segnala cioé l’incapacità del PD – l’unica organizzazione politica residua, forse non solo della sinistra italiana – di reperire al suo interno chi potesse rappresentarlo e dare voce alla sua quasi secolare tradizione. Insomma, evidenzia la sconfitta non solo dell’aristocrazia della “casta”, ma anche della politica condotta non da persone, bensì da individui collettivi.

Quando mi è capitato di parlare di individui collettivi sono stato spesso frainteso. Non me ne stupisco: è infatti la conseguenza dell’indiscusso predominio di una cultura individualista, al quale non si sottraggono neppure coloro che per tanti aspetti vi si oppongono, ma che sono incapaci di relativizzare (non “annullare”, si badi bene!) l’importanza del singolo rispetto alla collettività. Per cercare di evitare questo fraintendimento ricorderò che di “soggetto collettivo” parlava un intelletuale stimato e, tutto sommato, politicamente super partes qual è stato Antonio Gramsci, quando – proprio in opposizione alle derive paternalistico-totalitarie di ogni colore – rivendicava il ruolo essenziale e insostituibile del partito. Che, appunto, definiva “intellettuale collettivo”.

Non c’è alcun dubbio che oggi il partito sia fuori moda. Ma ciò accade in realtà soprattutto in Italia – a dispetto di una tradizione che, al contrario, era meno centrata sulle persone e anzi ha a lungo insistito sulla priorità delle collettività – e a causa dei molti errori fatti da chi, a partire dai primi anni Novanta, ne ha ereditata la guida dopo il “ciclone” di Tangentopoli. In particolare, l’idea del cosiddetto “partito leggero” ha cancellato ciò che costituiva la parte più importante di queste organizzazioni – il loro essere luoghi d’incontro e confronto, spazi di collaborazione progettuale, supporto delle concrete iniziative di militanti e aderenti, fonti di informazione e di arricchimento per tutti i simpatizzanti – lasciandone esistere solo la vuota forma, buona solo a esprimere una classe di “rappresentanti di professione”, senza alle spalle né il lavoro di analisi e progettualità dei teorici, né un reale rapporto con i solo rappresentati.

I risultati sono quel deserto da cui oggi si fugge con gli occhi troppo chiusi: la “casta”, l’assenza di rappresentatività, il vuoto pneumatico di proposte. Ai quali seguono la ricerca di rappresentanti nei cosiddetti “movimenti” (e non mi riferisco tanto al M5S, che del “partito”, lo voglia o meno, ha almeno parte della forma, quanto a tutti quei comitati e coordinamenti di comitati di cui pullula il Paese), che però, nella loro parcellizzazione, finiscono per rappresentare soprattutto l’ignoranza di chi vi aderisce.

Le sfide della modernità come la globalizzazione economica, la sovranazionalizzazione istituzionale, l’istantaneità dell’informazione, la rapidità degli spostamenti, la crisi ambientale, i limiti della crescita, richiedono analisi, pensiero e progettualità. Una progettualità certo non astratta, bensì da coniugare continuamente alla realtà degli eventi locali. I quali, però, non possono essere lasciati a loro stessi, perché è impossibile che la polverizzazione delle emergenze possa magicamente comporsi in un armonico agire comune, novella “mano invisibile”, agente stavolta non più sul piano del mercato, bensì su quello non meno mistico della tecnologia informatica.

Ma analisi, pensiero e progettualità per una realtà così complessa non sono cose nelle quali possa farsi valere l’individuo – il leader, oggi tanto di moda, cui af-fidarsi per le sue (del tutto presunte) competenze e virtù. Sono invece pane per i denti per una “collettività pensante”, per un “intellettuale collettivo” quale lo pensava Gramsci. Quell’intellettuale collettivo che altro non è che un partito, rinnovato e depurato dalle scorie degli anni – soprattutto degli ultimi, disgraziatissimi anni. Ignorarlo potrebbe essere definitivamente letale per il nostro Paese, e non solo.

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Politica e immagine: una storia emblematica

Come si sarà inteso dagli interventi precedenti, a mio parere il problema più rilevante della politica (non solo) italiana non è il malcostume della casta, né gli sprechi a esso legati, né tantomeno il mancato rinnovamento dei governanti: è, invece, il fatto che gli elettori non siano quasi per niente interessati ad analisi, idee e programmi, bensì all’immagine. Per dirla con Crozza: nella politica italiana conta più il packaging che il contenuto della confezione.

Su questo tema è molto istruttivo un recente romanzo: Il trono vuoto di Roberto Andò, che quest’ultimo ha poi portato sugli schermi con il titolo Viva la libertà (è nei cinema in questi giorni). Personalmente non ho ancora visto il film, ma ho letto il libro – che, rispetto al cinema, di solito permette una maggiore riflessione e comprensione delle dinamiche.

Protagonista della storia è, emblematicamente, il segretario del principale partito d’opposizione, e di sinistra, che viene da ripetute sconfitte elettorali e si avvia mestamente a perdere anche quelle imminenti – insomma, anche se non lo si dice mai, si tratta del segretario del PD. Ma, con un colpo di scena morettiano, il suddetto improvvisamente sparisce dalla scena pubblica senza avvertire né il suo braccio destro, né la moglie. SI reca in Francia, da una sua vecchia fiamma che lavora nel cinema, preda della nostalgia, ma anche e soprattutto della depressione che lo affligge e che il clima politico aggrava.

Impossibilitati a rintracciare il fuggitivo, con le elezioni alle porte, il funzionario di partito e la moglie del segretario hanno un’idea disperata: sostiturlo con un sosia perfetto, vale a dire il fratello gemello, quasi sconosciuto ai media e al pubblico sia perché tra i due non è mai corso buon sangue, sia perché questi è a dir poco singolare. Si tratta infatti di un filosofo (molto tradizionale, visto l’ampio sfoggio di cultura decontestualizzata che è solito fare) schivo e scontroso, che ha cambiato il proprio nome e non viene accostato al fratello politicante, ma soprattutto è malato di mente, tanto da essere appena uscito da una clinica psichiatrica….

La sostituzione ha effetti eclatanti: fin dal primo incontro con avversari politici e cittadini tutti si accorgono che la breve pausa (addebitata a una malattia) ha sorprendentemente giovato al “segretario”, il quale è adesso diretto e aggressivo quanto prima era riflessivo e comprensivo, appassionato e comunicativo quanto in passato algido e problematico. Se in precedenza era grigio, ora ha sempre la citazione giusta, la boutade pronta, il gesto seduttivo al momento giusto. A ben guardare, non dice assolutamente niente, anzi, si ha proprio l’impressione che sia un alienato qual ci si aspetterebbe da chi sia appena uscito da una casa di cura. Ma questo i cittadini di quell’Italia (neanche tanto) romanzesca non lo sanno: loro colgono solo il suo aspetto comunicativo, il suo calore, e si commuovono, si entusiasmano, si innamorano di lui, modificando repentinamente e inaspettatamente il loro gradimento per il partito che guida….

E’, non c’è dubbio, una storia emblematica, così come assai interessante è il fatto che il narratore lasci sempre indefinito il sentimento che traspare dallo scorrere della vicenda: chi è “migliore”, il grigio e perdente, ma accorto e problematico segretario o l’istrionico e vincente, ma incosciente e pazzo gemello?

Ecco, il fatto che il giudizio resti sospeso, così come che la storia del “pazzo di successo” sia del tutto plausibile, ci danno la misura del degrado della nostra società e della cultura di massa in cui siamo immersi. E’ così: saremmo pronti a mettere nelle mani di un pazzo il nostro paese, purché sia simpatico e parli con seduttiva passione. Saremmo disposti a metterci tutti nelle mani di un incompetente che dice solo cose vuote, purché quelle cose siano “belle”, purché ci faccia volare – non importa dove né con quali conseguenze – e non ci obblighi a vivere nella realtà.

Si badi che non sto esagerando, sospinto da un romanzo, perché un leader non ancora del tutto tramontato si è per anni vantato di essere “folle”, supportando le sue affermazioni citando l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, mentre la pratica politica più gettonata diventava (ed è tuttora) “far sognare la gente”.

Ma se tutto questo è vero, si capisce perché esista la “casta” e, del pari, si può essere facili profeti a dire che anche quando verrà sostituita non lo sarà da nulla di migliore. Una lettura, questa, che verrà contestata ineluttabilmente proprio da quegli inguaribili e incoscienti ottimisti che hanno permesso, votandola, alla casta di essere lì dov’è e che sono pronti a sostituirla con altri simpatici e istrionici cialtroni.

Forse è giunta l’ora di pensare prima di agire, e anche prima di infatuarsi di questo o quel brillante (e forse pazzo) leader.