Nei giorni scorsi in molti hanno salutato con entusiasmo l’elezione di Laura Boldrini e Pietro Grasso alle presidenze di Camera e Senato. E non c’è dubbio che l’assegnazione di tali cariche a personalità di indiscutibile valore morale e di incontestabile impegno civile, invece che a politicanti di lungo corso con rendite di posizione da far valere, sia un segnale importante per uno dei problemi oggi più gravi della nostra società: l’autoreferenza elitaria e aristocratica della classe politica.
Detto questo, e aggiunto che sul valore delle due persone non ho proprio nulla da eccepire, devo anche osservare come quell’entusiasmo mi sia sembrato unilaterale e un po’ fuori luogo. Perchè, come osservava (non in modo del tutto opportuno) Galli Della Loggia sul Corriere, la designazione di queste due persone rappresenta una rottura con il passato anche in senso negativo: segnala cioé l’incapacità del PD – l’unica organizzazione politica residua, forse non solo della sinistra italiana – di reperire al suo interno chi potesse rappresentarlo e dare voce alla sua quasi secolare tradizione. Insomma, evidenzia la sconfitta non solo dell’aristocrazia della “casta”, ma anche della politica condotta non da persone, bensì da individui collettivi.
Quando mi è capitato di parlare di individui collettivi sono stato spesso frainteso. Non me ne stupisco: è infatti la conseguenza dell’indiscusso predominio di una cultura individualista, al quale non si sottraggono neppure coloro che per tanti aspetti vi si oppongono, ma che sono incapaci di relativizzare (non “annullare”, si badi bene!) l’importanza del singolo rispetto alla collettività. Per cercare di evitare questo fraintendimento ricorderò che di “soggetto collettivo” parlava un intelletuale stimato e, tutto sommato, politicamente super partes qual è stato Antonio Gramsci, quando – proprio in opposizione alle derive paternalistico-totalitarie di ogni colore – rivendicava il ruolo essenziale e insostituibile del partito. Che, appunto, definiva “intellettuale collettivo”.
Non c’è alcun dubbio che oggi il partito sia fuori moda. Ma ciò accade in realtà soprattutto in Italia – a dispetto di una tradizione che, al contrario, era meno centrata sulle persone e anzi ha a lungo insistito sulla priorità delle collettività – e a causa dei molti errori fatti da chi, a partire dai primi anni Novanta, ne ha ereditata la guida dopo il “ciclone” di Tangentopoli. In particolare, l’idea del cosiddetto “partito leggero” ha cancellato ciò che costituiva la parte più importante di queste organizzazioni – il loro essere luoghi d’incontro e confronto, spazi di collaborazione progettuale, supporto delle concrete iniziative di militanti e aderenti, fonti di informazione e di arricchimento per tutti i simpatizzanti – lasciandone esistere solo la vuota forma, buona solo a esprimere una classe di “rappresentanti di professione”, senza alle spalle né il lavoro di analisi e progettualità dei teorici, né un reale rapporto con i solo rappresentati.
I risultati sono quel deserto da cui oggi si fugge con gli occhi troppo chiusi: la “casta”, l’assenza di rappresentatività, il vuoto pneumatico di proposte. Ai quali seguono la ricerca di rappresentanti nei cosiddetti “movimenti” (e non mi riferisco tanto al M5S, che del “partito”, lo voglia o meno, ha almeno parte della forma, quanto a tutti quei comitati e coordinamenti di comitati di cui pullula il Paese), che però, nella loro parcellizzazione, finiscono per rappresentare soprattutto l’ignoranza di chi vi aderisce.
Le sfide della modernità come la globalizzazione economica, la sovranazionalizzazione istituzionale, l’istantaneità dell’informazione, la rapidità degli spostamenti, la crisi ambientale, i limiti della crescita, richiedono analisi, pensiero e progettualità. Una progettualità certo non astratta, bensì da coniugare continuamente alla realtà degli eventi locali. I quali, però, non possono essere lasciati a loro stessi, perché è impossibile che la polverizzazione delle emergenze possa magicamente comporsi in un armonico agire comune, novella “mano invisibile”, agente stavolta non più sul piano del mercato, bensì su quello non meno mistico della tecnologia informatica.
Ma analisi, pensiero e progettualità per una realtà così complessa non sono cose nelle quali possa farsi valere l’individuo – il leader, oggi tanto di moda, cui af-fidarsi per le sue (del tutto presunte) competenze e virtù. Sono invece pane per i denti per una “collettività pensante”, per un “intellettuale collettivo” quale lo pensava Gramsci. Quell’intellettuale collettivo che altro non è che un partito, rinnovato e depurato dalle scorie degli anni – soprattutto degli ultimi, disgraziatissimi anni. Ignorarlo potrebbe essere definitivamente letale per il nostro Paese, e non solo.