Dopo la partita a scacchi giocata da Renzi per tornare ad avere una qualche visibilità pubblica – che nello stato in cui è ridotta la politica oggi significa tout court “potere” – l’impossibilità di trovare una qualche intesa tra le parti ha obbligato il Presidente della Repubblica all’ultimo tentativo prima delle elezioni: incaricare un “tecnico” di riconosciuta caratura che provi a dar vita a un Governo di larghe intese. Mattarella, a dirla tutta, ha in questa occasione giocato un ruolo fin troppo politico, sia nella scelta del “tecnico” (la cui storia professionale e di frequentazioni politiche pone nettamente entro la destra economica), sia nello spianargli la strada con un discorso di annuncio che dipingeva con toni apocalittici un suo eventuale fallimento con conseguente passaggio dalle urne. Toni, questi ultimi, non solo eccessivi, ma largamente di parte, perché se è vero che le elezioni potrebbero alzare un po’ i danni del virus, non è invece così ovvio che la possibile perdita dei prestiti del Recovery Fund sia una così irreparabile sciagura: per affermarlo è necessario aver già adottato una determinata posizione politica.
A giudicare dalle reazioni delle parti politiche – ma anche dei cittadini – nel corso delle non ancora terminate consultazioni tra il Presidente incaricato e i rappresentanti dei partiti, tutto lascia pensare che quel tipo di lettura sia stato però già adottato anche da chi, a parole, l’aveva sempre respinto. In teoria, infatti, un personaggio come Draghi non dovrebbe essere gradito né alla destra sovranista, in quanto europeista e sodale del sistema bancario, né al M5S, che delle banche e del potere economico istituzionale aveva fatto uno dei principali “nemici del popolo”, e nemmeno a LEU e PD, per il tipo di indicazioni politiche che sono sempre scaturite dai suoi interventi economici. Alla fine, quindi, i soli che avrebbero dovuto essere contenti della scelta sono Forza Italia e Italia Viva, due partiti “gemelli” che sono non a caso i referenti politici dell’imprenditoria, dell’affarismo e della speculazione, e che infatti sono anche stati i soli a plaudire entusiasticamente l’incarico. Tutti gli altri, magari riconoscendo a Draghi (giustamente) una specifica competenza tecnica, non hanno alzato grida di giubilo; tuttavia, con rare e presto abortite eccezioni, neppure hanno preso le distanze in modo netto: no, hanno quasi tutti detto “siamo disponibili”.
Certo, in quella disponibilità c’è una corretta e apprezzabile disposizione all’ascolto, al dialogo e alla mediazione – arti che chi fa politica dovrebbe possedere al massimo grado e che invece sono sempre più sostituite dall’ostensione dei muscoli e dallo strategismo (come ha ben esemplificato l’ultima crisi di governo) – così come c’è l’attesa del vedere le mosse altrui e anche una magari autentica preoccupazione sulle possibili conseguenze di sei mesi di pausa elettorale. E tuttavia che quella disponibilità non sia stata accompagnata da quasi nessun distinguo, da alcuna ben determinata riaffermazione della propria specificità politica (se non banali e abbozzate richieste in merito a questo o quell’imprescindibile provvedimento da conservare, tipo il reddito di cittadinanza o il divieto di licenziamento) da un lato desta sconcerto, dall’altro non può che essere interpretato come un segnale di conferma della crisi: a Draghi non c’è alternativa.
Come ben si sa, “there is no alternative” è stato e rimane il motto del neoliberismo, coniato da una frase espressa da una delle apripista di questa dannata forma data alla politica economica mondiale, Margareth Thatcher. All’epoca del pronunciamento di quella frase il mondo era ancora diviso in due blocchi, capitalistico e comunista, ed era quindi più o meno convinto che – piacesse o meno (a chi scrive non è mai piaciuta) – un’alternativa ci fosse. Quando essa è venuta meno, chi vi confidava non ha saputo crearne un’altra e oggi sappiamo quali ne siano state le conseguenze: da un lato la frase della Thatcher si è avverata, dall’altro il “pensiero unico” ha non solo aumentato le diseguaglianze – sia dentro i singoli Paesi, sia tra le nazioni ricche e quelle povere – ma anche accelerato la devastazione del pianeta su cui viviamo – l’overshoot day, il giorno in cui si esauriscono le risorse che l’ecosistema è in grado di rinnovare, arriva ogni anno un po’ prima (nel 2019 era il 29 luglio) e solo nel 2020 è slittato di un mese (22 agosto) grazie ai blocchi della pandemia. Tutto questo dovrebbe riguardare i cittadini del nostro paese e, perciò, le forze politiche che li rappresentano in Parlamento: quelle che vorrebbero che nella polis regnasse più equità, ma anche quelle che desidererebbero che l’Italia non si riempisse di cittadini stranieri, che scappano da povertà prodotte dall’iniqua redistribuzione internazionale della ricchezza o da crisi ambientali che sono anche frutto del modello di sviluppo neoliberista. Un modello di sviluppo che fa tutt’uno con le politiche economiche promosse e sostenute dalle banche che il “tecnico” Draghi ha diretto – sapientemente, forse, ma a vantaggio di loro stesse e di un sistema produttivo di ricchezza per pochi e povertà per molti.
L’Italia è al tempo stesso il paese europeo con il maggior debito pubblico e con il maggior risparmio privato dei propri cittadini; è stata definita (da Luca Ricolfi, in un omonimo libro) una “società signorile di massa”, perché grazie a quel risparmio solo meno di un terzo dei suoi abitanti ha bisogno di lavorare, mentre i rimanenti vivono di rendita (pensioni, reddito familiare, rendite da immobili e patrimoni) con un tenore di vita comunque alto. Infatti il suo PIL pro capite a parità di potere d’acquisto (un buon indicatore della ricchezza materiale) la vede tra il 25o e il 36o posto su 190 paesi, quindi tra quelli ricchi: il doppio di Brasile e Cina, il triplo di Tunisia e Albania, sei volte l’India, trenta volte la Palestina e la Guinea. Un PIL che andrebbe già ridotto quasi della metà per far fronte al citato sfruttamento eccessivo delle risorse e che poi andrebbe ridotto ancora – non so dire quanto, ma certo molto – per redistribuire le risorse disponibili sul pianeta ai Paesi meno ricchi. Certo, non subito, né in modo diretto, bensì progettando un modello di sviluppo diverso, fuoriuscendo da quello in cui ci troviamo adesso. In primo luogo, facendo saltare sia la speculazione finanziaria, sia l’idea che lo “sviluppo” di un Paese passi dall’aumento della sua produzione e della sua ricchezza materiale.
Per fare questo – che è poi quel che ci serve, “the alternative we need” – non c’è bisogno che un banchiere si sostituisca alla politica, casomai che un pool di economisti le si ponga a servizio. Può essere sorprendente che non se ne accorgano quelle forze politiche che pure con Draghi non avevano particolari affinità, ne ci si venga a ricordare il giovanile entusiasmo del banchiere per Keynes, un autore le cui teorie funzionano solo in economie espansive quali la nostra globalmente non può più essere e che perciò è stato giustamente messo in soffitta. Il problema è che a quelle forze manca una seria e complessa prospettiva politica, visto che – come scrivevo recentemente – siamo di fronte a una crisi tale da ridurre la politica a mera strategia cratica – lotta per il potere – priva di alcun contenuto. Le ideologie sono morte, si dice spesso, ed è vero, ma con una precisazione: ne sopravvive solo una, il neoliberismo, del quale Draghi è stato per anni protagonista. Per questo sia per l’uno, sia per l’altro, there is no alternative.
Almeno fino a quando qualcuno non ne metta finalmente a punto una.