Alzare la rappresentatività, non tagliare i rappresentanti

Quando la democrazia nasce ad Atene, tra il VI e il V secolo a. C., il suo esercizio prevede che tutti i cittadini adulti di sesso maschile (tra il 10 e il 20 per cento degli abitanti della città, essendo esclusi le donne, i minori e gli schiavi) abbiano accesso alla gestione del potere attraverso la possibilità di avanzare proposte, partecipare ai dibattiti politici e votare le decisioni esecutive. La città-stato di Atene conta tra i due e i trecentomila abitanti, cosicché la platea dei partecipanti oscilla tra le trenta e le cinquantamila unità: moltissime, ma ancora in qualche modo gestibili per realizzare quella che oggi chiamiamo “democrazia diretta”.

Quando la democrazia si riaffaccia nella modernità, svariati secoli più tardi, gli Stati che la ripropongono non sono più città, gli aventi diritto non più poche decine di migliaia bensì milioni e vivono a distanze spesso troppo ampie per potersi incontrare. Nasce per questo la democrazia rappresentativa, la quale prevede che ad avanzare proposte, discuterle e deliberare attraverso il voto non siano più i cittadini, bensì dei rappresentanti da loro nominati per via elettiva. La loro funzione è quella di essere dei portavoce dei cittadini nei diversi momenti della vita democratica, quello propositivo, quello dibattimentale e quello deliberativo. Ma affinché questo ruolo possa essere svolto in modo adeguato, ossia mantenendo le specificità della democrazia ateniese, sono indispensabili una serie di condizioni:

  1. che gli eletti rappresentino realmente i cittadini;
  2. che in Parlamento vi sia dibattito;
  3. che la votazione decisionale sia libera.

La prima condizione può essere soddisfatta solo se il rappresentante mantiene un costante contatto con i cittadini che lo eleggono; ma perché ciò avvenga è necessario tanto che egli si presenti spesso sul territorio per confrontarsi con i suoi elettori, quanto che vi abbia costantemente dei collaboratori i quali, in spazi visibili e sempre aperti, raccolgano le proposte dei cittadini, le discutano con loro, le elaborino, le trasmettano all’eletto che deve rappresentarle in Parlamento.

La seconda condizione può essere soddisfatta solo se il Parlamento non blocca le discussioni ogniqualvolta il Governo vuol riaffermare la propria forza nonostante sia debole, o è indisponibile alla mediazione con il resto del Paese, o vuol “forzare” le deliberazioni per qualche motivo di parte, e via dicendo.

La terza condizione può essere soddisfatta solo se il singolo rappresentante non è ostaggio del partito politico cui fa parte.

Non è difficile rendersi conto che nessuna delle tre condizioni vengono oggi soddisfatte.

La prima non lo è perché gli uffici locali dei deputati, che un tempo c’erano, sono stati progressivamente aboliti, così come il loro periodico confrontarsi con gli elettori: erano pratiche faticose e onerose (gli alti stipendi dei deputati servivano a quello, a stipendiare dei collaboratori, non a comprarsi le barche), così sono state sostituite dalle passerelle televisive – che però sono unilaterali e non permettono la raccolta delle proposte dei cittadini e il confronto con essi, elementi chiave della rappresentanza.

La seconda non lo è perché ormai si governa a colpi di fiducia, di decreti, di manovre omnibus entro le quali nascondere le norme su cui vi sia dissenso, mentre le proposte dei cittadini non trovano neppure l’occasione per essere discusse.

La terza non è soddisfatta perché i deputati sono selezionati dai partiti già prima della loro elezione (cosa che di per sé ha senso e non è in conflitto con la democrazia) in funzione soprattutto della loro fedeltà ai vertici dell’organismo e, nel caso entrino con questo in conflitto nel corso di deliberazioni, vengono o allontanati, o quantomeno messi sulla “lista nera” e non ripresentati alla successiva tornata elettorale. Sono cioè sotto ricatto.

Questo è il triste stato della democrazia italiana (e, credo, anche quello di gran parte delle altre democrazie mondiali, cosa che però qui non c’interessa). Uno stato rispetto al quale, va detto, i cittadini sono corresponsabili: sempre pronti a protestare contro il Governo (spesso appellato solo come “Potere”), quante volte hanno protestato per l’allentarsi del rapporto con i loro rappresentanti? Quante proposte hanno loro avanzato, chiedendo che se ne facessero latori in Parlamento? Quante volte sono andati a chieder direttamente conto del loro operato di rappresentanti? In breve: quanti cittadini hanno discusso con il loro rappresentante in Parlamento?

A fronte di tutto ciò, i cittadini italiani stanno per esser chiamati a esprimersi in merito a una riforma che taglierebbe il numero dei Parlamentati, cosa che permetterebbe una riduzione della spesa pubblica stimato in percentuale dello 0,007 – quindi un  risparmio meno che esiguo. Una tale riforma non avrebbe alcun effetto sulla seconda e sulla terza condizione del buon funzionamento democratico dello Stato: ridurre i rappresentanti, infatti, non aumenterebbe il dibattito, né renderebbe i residui Parlamentari meno ricattabili e sudditi dei vertici dei loro partiti.

Le sole conseguenze che avrebbe la riforma sono sulla prima condizione, ma sarebbero pesantemente negative: aggraverebbero infatti la non rappresentatività dei deputati – i rimanenti farebbero da portavoce a un numero ancora maggiore di cittadini – e soprattutto renderebbe ancor più difficile ripristinarla – l’elettorato con il quale ciascuno di loro dovrebbe confrontarsi, in via diretta o indiretta, si allargherebbe, rendendo la cosa meno efficacie.

Questa è la ragione per cui considero il voto che ci attende il 20 settembre alla stregua di quello costituzionale del 2016: un referendum cui votare NO per preservare la possibilità almeno di sperare nella rinascita di una rappresentatività oggi de jure presente, ma de facto azzerata. Se il taglio dei parlamentari avvenisse, sarebbe il sugello di quell’azzeramento: visto che il Parlamento è fatto solo di privilegiati pagati per premere bottoni a comando, meglio ridurne il numero – ragionamento entimematico che si completa con “e lasciando che continuino a svolgere solo quella mansione servile”. Se invece il numero dei parlamentari resterà invariato, sarà possibile proporre delle semplici riforme di regolamento, atte a garantire che gli eletti tornino a fare i rappresentanti e non i premibottoni.

Ne va del nostro futuro democratico.

 

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4 thoughts on “Alzare la rappresentatività, non tagliare i rappresentanti

  1. Renato Pilutti ha detto:

    Vedi Neri, il tuo ragionamento, sia sotto il profilo storico sia sotto il profilo politologico, non fa una piega, tant’è che – teoreticamente – lo sottoscrivo in pieno, ma… e tu sai che quando uno ti dice “ma” va a finire che nonostante il primo interlocutore (tu, in questo caso) abbia ragione (quasi) del tutto, si può preferire proprio la scelta contraria.
    Infatti io, turandomi il naso come diceva qualcuno quarant’anni fa votando Democrazia cristiana (era Indro Montanelli), voterò “sì” come il popolazzo. E lasciami questo termine che riguarda l’80% dei cittadini votanti, secondo la campana di Gauss.
    Il fatto è che il tuo articolato e correttissimo discorso è accessibile a (forse, ad essere ottimisti) un 10% dei cittadini elettori, quelli che stanno alla dx della campana gaussiana.
    Voterò “sì” perché se stiamo ad aspettare un riforma costituzionale complessiva ed equilibrata, tu e io, pur augurando a tutti e due lunga vita, non la vedremo mai, no, stai certo.
    Non credo che passare da 945 a 600 parlamentari sia una lesione qualitativa del personale politico scelto nei modi che hai ben spiegato.
    Se vogliamo incidere sulle cose, a volte dobbiamo anche accettare l’imperfezione di qualche riforma, anche se parzialissima, sghemba e sgangherata, perché a volte è meglio qualcosa, piuttosto che nulla.
    Circa il risparmio, la puoi mettere, puoi spiegarla con lo 0,007% oppure con un caffè all’anno, ma anche con mezzo miliardo di euro per legislatura, che si potrebbero spendere meglio, Abbraccioti caro amico,
    renato

  2. Massimo ha detto:

    A me piacerebbe capire com’è che 57 milioni all’anno diventano 500 in 5 anni, ma tant’è..
    Parlare di risparmio riferendosi alle pratiche che dovrebbero consentire lo svolgimento della democrazia lo trovo deprimente. Anzi trovo profondamente irritante l’idea che chi fa della politica sia a prescindere uno sprecone e quindi ogni taglio sia benvenuto. Il tutto è frutto di una narrazione che cerca di convincere (e ci è riuscita) che il nostro mostruoso debito sia dovuto ai lauti stipendi della casta.
    La questione riguarda solo la rappresentatività o meno.

  3. Neri Pollastri ha detto:

    Ammettiamo che tu abbia ragione, Renato, è che il mio discorso, pur giusto, sia comprensibile al 10% dei cittadini italiani: ebbene, è proprio questo il male del nostro paese. Un male, come spiego nell’articolo, che è anche conseguenza della scomparsa della politica dal territorio, dovuta al fatto che i rappresentanti eletti dai cittadini non hanno più con questi alcun rapporto, né ritengono che questo faccia parte delle loro mansioni, cosicché anche i cittadini ormai credono che il loro compito democratico sia andare una volta ogni x anni a votare per un tizio che gli sta per qualche ragione più simpatico e poi impallinarlo perché non fa quel che speravano.
    Ora, questo stravolgimento del concetto della democrazia è quel che la riduzione dei parlamentari conferma e sugella: meno parlamentari faranno palesemente più fatica a relazionarsi con i loro rappresentati, quindi una loro riduzione renderà più difficile il ripristino del corretto comportamento democratico di base, quello senza il quale sarà impossibile anche in futuro che un ragionamento giusto come il mio venga compreso da una parte più cospicua dell’attuale 10%. Votando sì, dunque, non solo ti turi il naso, ma contribuisci alla futura riproduzione dell’aberrazione che tu stesso segnali.
    Quanto alle riforme tanto agognate, ti assicuro che personalmente le ritengo inutili: tu puoi cambiare ingegneria istituzionale quanto vuoi, ma se i cittadini non capiscono dei banali discorsi chiari e i loro rappresentanti se ne stanno isolati nelle torri d’avorio di Montecitorio, ogni possibile riforma sarà vana. E mi stupisce che non ci si sia arrivati, visto che un paio di riforme sono state fatte, con risultati peggiori di quanto le aveva precedute (il maggioritario, per esempio, ha reso il sistema ancor meno “governabile”, in compenso ci ha fatto perdere un terzo di elettori, oggi non più rappresentati). Lasciamo le riforme a quando avremo un elettorato che sia tornato a far politica almeno come negli anni Sessanta e Settanta, e concentriamoci proprio su quest’ultimo obiettivo. Ma per esso non servono riforme, bastano dei regolamenti del sistema che c’è, tipo: un parlamentare DEVE avere uno o più punti sul territorio aperti alla cittadinanza, DEVE farsi vedere di persona almeno tre volte al mese, DEVE fare proposte di legge, interrogazioni parlamentari, relazionare ai cittadini, aprire per loro momenti di discussione su quel che avviene in parlamento, ecc. ecc.. Se non lo fa, viene sanzionato e, oltre un certo limite, non può ripresentarsi.
    Facciamo questo e, tra una decina d’anni, riparliamo di riforme. Magari a quel punto le capiscono anche i cittadini.

  4. […] ho avuto modo di osservare tempo fa in riferimento al quesito referendario, la nostra è una democrazia rappresentativa, il buon funzionamento della quale prevede che in […]

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