E’ strano che in tanti si siano sorpresi dell’assalto al Congresso degli Stati Uniti, operato dai sostenitori di Donald Trump per impedire la proclamazione della vittoria di Joe Biden: si è infatti trattato solo di una conseguenza logica e inevitabile del lavoro condotto dall’ormai ex Presidente in questi anni e di quanto da lui messo a punto dopo la sconfitta elettorale. Sarebbe dunque stato sorprendente che non fosse successo niente.
Non meno strano che la maggioranza dei commentatori si sia soffermata sulla presunta debolezza della democrazia statunitense – la quale, pur con i suoi limiti, è istituzionalmente piuttosto rodata – e abbia invece trascurato la vera causa di quell’evento, che non è istituzionale, bensì socioculturale, e che è comune a tutti i paesi democratici: l’assenza di garanzie sulla qualità del dibattito pubblico.
A Washington, infatti, un manipolo di cittadini – fortunatamente ridotto di numero e decisamente disorganizzato – ha tentato di impedire con la forza che fosse ratificato l’esito di una legittima procedura democratica; ma non l’ha fatto perché non approvava quell’esito, cosa che avrebbe configurato l’assalto a Capitol Hill come un attacco alla democrazia, bensì perché convinto che esso fosse stato manipolato: l’intenzione dei “ribelli” non era dunque sovvertire, bensì difendere la democrazia, facendone rispettare le procedure istituzionali.
Il problema, quindi, non sta nella loro insubordinazione antidemocratica, bensì nel fatto che si sbagliavano: nelle elezioni presidenziali non c’era infatti stata nessuna manipolazione e, di conseguenza, non esisteva nessuna ragione per difendere una democrazia che funzionava benissimo. Su questo fatto non c’è razionalmente alcun dubbio, per una serie di ragioni che sono chiare a tutti e che includono l’affidabilità del sistema statunitense, le ripetute verifiche effettuate su richiesta delle parti, le conferme sulla correttezza delle elezioni date da ogni tipo di osservatore (democratici, repubblicani, neutrali, nazionali e internazionali), l’implausibilità di un broglio messo in piedi proprio da chi non deteneva il controllo politico del sistema e – soprattutto – la surreale inattendibilità delle tesi avanzate dai sostenitori della frode (un intrigo messo in atto da Obama con la collaborazione di Renzi e perpetrato attraverso un satellite…).
E allora la domanda che si impone è: perché gli assalitori del Campidoglio hanno creduto alla teoria del broglio?
La risposta, complessa e articolata, rimanda ai numerosi studi sociologici che spiegano nel dettaglio il sorprendente e inquietante successo che sempre più riscuotono i rumors e le fake news (tra i tanti, Voci, gossip e false dicerie di Cass Sunstein). Semplificando un po’, potremmo sintetizzare ricordando che se si è insoddisfatti e/o emotivamente provati, si sviluppa la tendenza ad accettare come valide spiegazioni di eventi che in qualche modo ci confortino, anche quando prive di fondamento; una tendenza che si rafforza se queste tesi vengono avanzate da persone autorevoli, di cui ci fidiamo o che apprezziamo, e se cresce il numero delle persone che vi credono. Va notato che gli ultimi due elementi hanno una loro parte di ragionevolezza (la fiducia in chi sia autorevole e il consenso diffuso sono tra gli elementi sui quali basiamo quotidianamente le nostre credenze), che viene tuttavia travolta dal rifiuto di confrontare seriamente le fonti, “puntando” invece in modo cieco sulla tesi più “gradita”. Aggiungiamo a tutto questo l’umana tendenza – testimoniata dall’antico successo della mitologia e della religione – a preferire spiegazioni di eventi spiacevoli e frustranti che ne facciano ricadere la responsabilità su un qualche “colpevole”, piuttosto che su inappellabili dati di realtà (meglio “credere” a un complotto orchestrato dal Male piuttosto che riconoscerci parte di una realtà nella quale gli eventi non seguono i nostri desideri), cioè la diffusa predilezione per le “teorie della cospirazione”, ed ecco che è possibile comprendere perché a Washington dei cittadini americani abbiano attaccato le istituzioni democratiche convinti invece di difenderle.
Nel caso dell’assalto al Congresso statunitense, infatti, a diffondere la “notizia” del broglio, spalleggiato dal suo entourage, era stato nientemeno che il suo Presidente, cioè un soggetto di massimo prestigio, e a ritenerla vera proprio i suoi sostenitori, frustrati dalla sconfitta e perciò poco disposti ad accettarla. Per farlo, però, questi ultimi hanno dovuto sospendere l’esercizio dello spirito critico, evitando di confrontare le parole del Presidente con le altre fonti (che confermavano tutte la sconfitta), trascurando che nello specifico l’autorevolezza del Presidente era inferiore rispetto a chi i dati li aveva elaborati (e perciò li conosceva di prima mano) e rinunciando a verificare le prove da lui addotte a sostegno della tesi (praticamente nulle). In breve, quei rivoltosi hanno dovuto abdicare alla razionale ricerca della verità (con la minuscola) attraverso un aperto confronto dialogico – ovvero al presupposto materiale della democrazia – a favore di un cieco fideismo – che è invece proprio delle società verticistiche, nelle quali la Verità (con la maiuscola) è garantita da un’Autorità superiore.
Come detto, che ciò sia potuto succedere ha molte spiegazioni: politiche, culturali, psicologiche ed altre. Ma, di fondo, il “brodo di coltura” di fenomeni di questo genere è uno solo: la disincentivazione dell’esercizio del pensiero critico e della ricerca della verità, la quale passa da un lato dalla svalutazione della verità, a torto identificata con qualcosa di statico, definitivo e autoritativamente imposto – caratteri che al contrario competono proprio al falso spacciato per vero, giacché la verità è cooperativa e muta costantemente -, dall’altro dall’assenza nelle nostre società di meccanismi che assegnino d’ufficio a chi parla la responsabilità delle proprie parole e, quindi, il dovere di portare le prove della loro veridicità.
Un dovere di dire il vero che garantisca ai cittadini il diritto alla verità, senza il quale la democrazia non può esistere e la cui attuale carenza, infatti, la sta mettendo in ginocchio. A Washington così come a Roma e in Europa, come dimostrano là Capitol Hill, qua – come ho scritto nell’articolo La caporetto del pensiero razionale. Una lettura pratico filosofica della pandemia – le manifestazioni di coloro che negano l’esistenza o la pericolosità della pandemia.