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Discutere l’omogenitorialità resta un tabù

C’è poco da fare, oggigiorno ci sono temi su cui non è possibile discutere, argomentare, confrontarsi, ma solo schierarsi e difendere la propria posizione senza ascoltare realmente l’interlocutore. Persino tra filosofi. Uno di questi temi è l’omogenitorialità, intrico di questioni estremamente complesse e fortemente ramificate che ciascuno dei contenenti si sforza di ridurre, mostrando quelle a suo pro e nascondendo quelle che gli creano problemi. Come nel caso della recente presa di posizione della ministra Roccella e delle critiche che le rivolge, dalle pagine di Domani, il filosofo Gianfranco Pellegrino.

La ministra, uscendo per una volta dalle posizioni ideologiche di stampo cattolico e “naturalistico”, solleva un problema – udite udite – di diritto: quello dei figli omogenitoriali di conoscere i loro genitori biologici, da lei denominato, forse in modo un po’ maldestro, “diritto di conoscere l’origine”. Un diritto, appunto, che pare ben difficile contestare: qualsiasi significato e valore culturale si voglia attribuire alla radice biologica, essa incontestabilmente c’è, e togliere a un essere umano la possibilità di conoscerla – come spesso accade nei casi di procreazione assistita omogenitoriale (e talvolta anche eterogenitoriale) – ha tutta l’aria di essere un intollerabile atto d’autorità perpetrato dalle coppie e che spetterebbe proprio agli Stati impedire. Certo, questo diritto non è sufficiente a chiudere il discorso, perché questioni in gioco ce ne sono molte altre, prima tra tutte quella, estremamente scottante, del riconoscimento dello status di quei bambini di fatto dati alla luce con quel tipo di modalità; ma l’esistenza di tali questioni non cancella in alcun modo il “diritto” citato dalla ministra, una soluzione delle quali dovrebbe in qualche modo tenerne conto.

Non sembra essere di quest’avviso Pellegrino, il quale si sforza di far sparire dal dibattito quel diritto. In primo luogo spostando la discussione su un terreno più favorevole: quello dell’identità, tema notoriamente complesso e indecidibile sul quale, proprio per questo, è facile far agire la retorica. Infatti, posizionatosi su questo terreno Pellegrino può sì riconoscere che il dato biologico è ineludibile, ma anche che la biologia non è tutto, anzi, che l’identità proviene molto più dai rapporti di cura, i quali “prescindono quasi totalmente” da essa. Appunto: “quasi”. Proprio quel “quasi” su cui verteva il diritto sollevato dalla ministra, del quale però Pellegrino sembra disinteressarsi.

Con una quache ridondanza, il Nostro ripete l’argomento riguardo alle “origini” – il termine usato dalla ministra – sostenendo, giustamente, che essa non si riduce certo alla sola discendenza cromosomica: c’è molto altro, storia, cultura, eventi sociali, che sono in parte anche comuni. Concludendone che l’identità – della quale, peraltro, la ministra non faceva menzione e che è entrata illecitamente nell’argomento – non può essere ricondotta alla mera radice biologica, se non attraverso “mitologie di sangue e di razza”. Cosa che, invero, può valere solo se volessimo cancellare l’importanza degli altri fattori che fanno sì che un individuo sia proprio colui che è, ma che – se è vero quel che anche Pellegrino concede, ovvero che la biologia è uno dei dati ineludibili dell’identità – non toglie affatto il diritto di un essere umano di conoscere anche le sue origini biologiche.

Che aldilà della retorica l’argomento faccia acqua, lo testimonia comunque la conclusione dell’articolo di Pellegrino: “Francamente, talvolta, si vorrebbe che persone come Roccella si facessero una chiacchierata con i molti bambini e bambine in situazioni del genere, per sostenere la saldezza sorridente della loro identità”. Un argomento del tutto incongruo alla questione di partenza, vale a dire del loro diritto di conoscere il proprio genitore biologico, che essi possono ben non esercitare, ma che resta tale e che il Nostro ha sorridentemente saltato a piè pari. Assieme a tanti altri temi spinosi connessi all’omogenitorialità, che discutere pare essere però un tabù: ha davvero diritto di avere un figlio chi, senza handicap che glielo impedicano, ha liberamente scelto di vivere con una persona con cui non può averlo? Ha davvero senso mettere in moto una macchina medica ed economica per far sì che lo possa avere in altro modo? E così via.

Francamente, talvolta, si vorrebbe che persone come Pellegrino dedicassero più tempo alla letteratura e leggessero libri come Sangue innocente di P.D. James, nel quale vengono messe in scena le angosce insoddisfatte di chi vuol conoscere il padre biologico (in quel caso nemmeno connesse a famiglie omogenitoriali) e si mostra come possano portare a drammi personali. La letteratura, fin dalle origini della cultura, può aiutarci a uscire dalle secche ideologiche.

Nel frattempo Pellegrino ha aggiunto altre considerazioni in un nuovo articolo pubblicato su Domani. Me ne occuperò nei prossimi giorni.

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